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Rafa, giovane calciatore

Ho un figlio di 12 anni che gioca benino a calcio, vorrei che avesse un’opportunità, vorrei che non avesse rimpianti. Fu papà Benitez a prendere l’iniziativa. Usò più o meno queste parole il giorno in cui andò a parlare con un amico che aveva sposato la figlia di Santiago Zubieta, uno dei più grossi conoscitori di calcio giovanile di tutta Madrid, uno dello staff del Real. Rafa ebbe la sua occasione. Santiago gli fece giocare due partite e lo prese fra gli juniores. Centrocampista. Votato al comando. All’organizzazione del gioco e del reparto. Buone qualità, e una voglia di imparare persino più grande. Solido, non brillantissimo, ma perseverante. Non fortissimo di testa, pochi dribbling, ma una straordinaria capacità nel passare la palla. Lento, dicevano, ma sapeva dove piazzarsi perché il pallone gli stesse spesso fra i piedi. Un giocatore al servizio della squadra.

A 12 anni Rafa arriva al Real e gioca un torneo in cui le squadre portano i nomi dei calciatori veri. Anche a mamma Rosario faceva piacere vederlo calciatore: e poi era il Real, il “suo” Real. Il calcio in casa della signora Maudes era già un abitudine. Un suo fratello era stato calciatore in serie C, la famiglia girava la Spagna per andare a vederne le partite. Vuol dire che adesso avrebbe girato la Spagna per vedere suo figlio. Era lei che lo accompagnava al campo, non lontano dal Bernabeu, la vecchia storia dei sacrifici che si fanno per i figli. Fu così che Rafa vide la sua prima partita allo stadio. Il Real dava i biglietti a lui e a tutti i suoi compagni di squadra, terzo anello, arrivavano con i panini e le bibite un’ora e mezza prima. Rafa ancora ricorda tutte le sfide viste da lassù, una fantastica rimonta in Coppa dei Campioni contro il Derby County, la sfida contro il Borussia Moenchegladbach di Vogts, Bonhof, Simonsen ed Heynckes; il Bayern di Müller, Maier e Beckenbauer, oppure l’Amburgo, quando l’Amburgo significava Kevin Keegan. Raccontano che Benitez scrivesse tutto su dei quadernetti: la tattica, le capacità dei giocatori visti, le cose che si potevano correggere. Ecco, soprattutto quelle: le cose che si potevano correggere. Cominciò a farlo anche per le partite della sua squadra. Annotava tutto. I punti deboli, i risultati, i moduli di gioco. Quadernini che pare conservi ancora. Cominciò durante un torneo estivo, i compagni ne furono sorpresi. “Quando giocavo a calcio”, ha raccontato Benitez a Paco Lloret, autore della sua biografia, “i miei compagni dicevano che in campo parlavo troppo, perché quando vedevo un difetto cercavo di correggerlo, era per il bene della squadra. In realtà io non parlavo, io spiegavo”.

Dalla juniores alle giovanili vere e proprie, poi il passaggio alla squadra che il Real aveva in serie C, infine il Castilla, la succursale che giocava la serie B spagnola. Senza mai sgarrare, rigoroso, mai una sera in discoteca, mai un bicchiere di vino, a letto prestissimo. Sono gli anni in cui a casa non riesce mai a vedere il finale di un film, buonanotte allora, vado a dormire, Paco domani mattina mi racconti com’è finito. I compagni di squadra gli diedero il soprannome di Trina, un succo d’arancia dell’epoca. Per dire quale fosse il suo unico vizio. E poi arriva l’estate del 1979. Il Real ha vinto il campionato ma ha perso la finale di Coppa contro il Valencia di Kempes, il Matador. Pochi giorni dopo Benitez è con la nazionale giovanile in Messico, alle Universiadi, quelle in cui Mennea batterà il record del mondo dei 200 metri. La Spagna debutta con un 4-0 su Cuba, Benitez segna su rigore. La partita successiva: il Canada. Finisce 0-0, ma non conta. Conta altro. Conta un pallone che Benitez pensa sia facilmente suo, a centrocampo. Conta che gli piomba addosso un ragazzotto canadese tutta sostanza che per portarglielo via, e gli spacca il ginocchio. Gli salta il collaterale del ginocchio destro. I medici in ospedale non se ne accorgono. Stiramento, dicono. Basta una benda. Siamo nel 1979, ricordatevelo. E Benitez mette la benda. Resta altre due settimane con i compagni di squadra, solo al ritorno in Spagna sarà il dottor Herrador del Real Madrid a cogliere la reale portata dell’infortunio. Non esiste ancora la risonanza magnetica, l’artroscopia è una tecnica agli esordi, Benitez sceglie di non operarsi. Fisioterapia, questa è la strada. Strada lunga. Serve pazienza. E ottimismo. Difficile accettarlo, se l’infortunio capita proprio nel momento in cui il Real Oviedo voleva ingaggiarlo e se il Castilla voleva portarlo in ritiro con la prima squadra. Tutto in fumo, deve ricominciare daccapo. Dopo 6 mesi di palestra, il ginocchio gli fa male ancora. Poi arriva la tendinite per gli appoggi sbagliati figli del dolore. Uno sperpetuo che dura un anno. Quando Rafa può tornare in campo, si accorge presto che non è la stessa cosa. Non è più lo stesso di prima.
(2. – continua)
Il Ciuccio

[fonte: Paco Lloret – Rafa Benìtez, Dewi Lewis Media, 2005. La foto è tratta dal libro]

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