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Il tifo per il Napoli c’è solo in trasferta (perché gli ultras sono assenti): grazie Maroni

Minuto 5 del secondo tempo di Napoli-Catania. Il secondo tempo si annuncia delicato: eravamo andati sul 2-0, abbiamo preso a freddo il gol di un buon Catania, inizia a piovere, mercoledì c’è il Marsiglia. Dalla Curva B parte il coro, che non ascoltavo al San Paolo dalla passeggiata col Livorno (domenica col Torino non c’ero), ovvero dalla partita dell’assurda legittimazione da parte degli ultras del “colerosi” come innocuo sfottò: “In un mondo che”. La Curva A risponde: “Non ci vuole più”. Ed ecco le due curve cantare all’unisono, quindi alternate, poi di nuovo all’unisono, quindi ancora alternate, quel coro che istupidisce piuttosto che ipnotizzare, rincoglionisce piuttosto che ammaliare l’intero stadio.
Il primo coro a sostegno del Napoli, in un secondo tempo in cui ci divoriamo gol su gol, in cui il Catania schiatta fisicamente ma in cui l’uomo di stadio ha sempre paura della beffa finale che gli dèi del calcio riservano a chi spreca spreca e non la butta dentro, il primo coro a sostegno del Napoli arriva al primo minuto di recupero: la Curva B intona un “Dài ragazzi, non mollate”. Al fischio finale, solo un “Alè alè alè Napoli alè”.
Bene, cari ultras: quel coro assurdo, triste e squallido rappresenta perfettamente la vostra cosiddetta filosofia, la pseudo-filosofia fatta di “coerenza e mentalità”, di “esiste solo la maglia”, del “nessun coro per il singolo giocatore”, della pressoché totale indifferenza nei confronti di tutto ciò che è estraneo al vostro mondo e alle vostre logiche. Con quel canto, ho letto da qualche parte nella settimana che è seguita alla vostra folle scelta di mettere da parte la vostra appartenenza a questa terra in nome della suprema appartenenza al mondo ultras; con quel canto, ho letto da qualche parte nella settimana seguente ai cori auto-razzisti e pseudo-ironici di Napoli-Livorno, ci dite: “Cantiamo, dunque esistiamo, dunque andiamo al di là degli uomini in campo, al di là del risultato, al di là della partita, al di là di tutto, cantiamo ed esistiamo solo noi”. Bene, cari ultras: che assurdità passare il secondo tempo a cantare solo quel coro. Che tristezza quel coro. Che squallore quell’“oooh oooh oh”, cadenzato secondo ritmi diversi dalle due curve, ma ugualmente squallido.
Cari ultras, chi scrive non ha vissuto gli anni d’oro del Napoli, il primo 10 per cui ha fatto il tifo si chiamava Benny Carbone, è abbonato da vent’anni di cui dieci passati in Curva A, detesta gli occasionali che scambiano il San Paolo per l’Edenlandia, quelli che si portano la ragazza il sabato sera allo stadio, quelli che vanno via al 40’ del secondo tempo per evitare il traffico. Chi scrive si ritiene, cioè, un tipo da stadio, non una fighetta da divano e Sky che ogni tanto fa un giro al San Paolo. Cari ultras, io rimpiango con tutto me stesso di non aver conosciuto il tifo di cui i miei maestri, quelli del Te Diegum, con cui vado allo stadio da vent’anni, mi raccontano con nostalgia. Il tifo del “Porompompero”, del “Giulietta è ’na zoccola”. Il tifo che con i suoi cori e i suoi slogan fondava un’identità collettiva, esaltava l’appartenenza alla propria città, includeva tutto lo stadio e tutta la gente di Napoli e urlava al mondo “Noi siamo i Napoletani, noi siamo ironici, creativi, unici e inimitabili”.
Oggi sono costretto a vivere il vostro tifo, io come altre migliaia di tifosi normali che in voi non trovano un punto di riferimento, ma solo urlatori dagli pseudo-valori sterili ed incomprensibili. Un tifo, il vostro, col quale volete solo fondare la vostra identità privata e fatta di un’etica strampalata, con cui vi chiudete nel vostro piccolo mondo ed escludete ferocemente la stragrande maggioranza dei tifosi che vengono allo stadio e che come voi amano il Napoli di un amore viscerale, con cui rivendicate solo la vostra allucinata appartenenza alla congrega trans-cittadina degli Ultras, con cui soltanto urlate al mondo “Noi siamo Ultras, di tutto il resto ce ne freghiamo”.
Ah, cari ultras, come sarebbe bello se guidaste l’intero stadio a cantare cori ancora allegri e creativi, se sosteneste i ragazzi con la maglia azzurra nel momento del bisogno, se tributaste cori e striscioni ai giocatori che meglio rappresentano e onorano i nostri colori e la nostra città. Sapete cosa mi piacerebbe più di ogni altra cosa? Che al San Paolo si respirasse la stessa atmosfera che ho respirati mercoledì nel settore ospiti dell’Artemio Franchi: tifo intenso e caloroso tutta la partita, sostegno appassionato alla squadra che è aumentato dopo l’espulsione di Maggio, il beffardo “Voi siete come la Juve” che partiva ad ogni discutibile decisione dell’arbitro a favore dei Viola, l’ironico “Alè Vesuvio alè, perché il Vesuvio è la terra che amiamo, dell’eruzione ce ne freghiamo” con cui rispondevamo ai soliti cori razzisti (pardon, sfottò trentennali) che pure la civile Firenze ci ha vomitato contro. Vorrei respirare sempre, al San Paolo, quell’aria che mi hanno fatto respirare le famiglie, i gruppi di amici, le coppie, tutte le persone perbene che in vostra assenza hanno potuto acquistare il biglietto per la trasferta, anche se non erano a Gela (sapete, io ero uno dei fessi che sperava di poter comprare il biglietto per Chelsea-Napoli pur non appartenendo a nessun gruppo organizzato). Mercoledì a Firenze non c’eravate perché non vi tesserate. Beh, cari ultras, nella mia vita non avrei mai pensato di dover essere grato a Roberto Maroni. Perché mercoledì è stato Roberto Maroni a farmi vivere, dopo tempo oramai immemorabile, una serata di tifo gioioso ed appassionato. E chi me lo doveva mai dire.
Ecco, cari ultras: anche se abbiamo vinto col Catania, anche se ci prepariamo a vivere una intensissima ed appassionatissima settimana di adrenalina pura, io ho un bel po’ di amaro in bocca. Perché mi rendo conto di quanto sia ormai disperato e feroce il mio desiderio, anzi il mio bisogno, di un tifo che non sia solo ridotto ad onanismo autoreferenziale.
Andrea Manzi

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