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Il Napoli non ha battuto la Roma grazie a Maradona. Basta vivere nel passato

Non ho cantato “Oh mamma mamma mamma”. No. Anzi, mi ha infastidito. Ho pensato a quei ragazzi in mezzo al campo che stavano dando l’anima per la nostra maglia (anche se gialla) e ho provato a immedesimarmi. Che cosa devono aver pensato? Eravamo sull’1-0, calcio d’angolo per la Roma, e lo stadio era in festa. In subbuglio. Ci sono rimasto male io per loro. C’è voluto solo il gol di Gonzalo per interrompere quel coro. Un passaggio di testimone che probabilmente sarebbe piaciuto a Soriano. Da Maradona a Higuain che si batteva il petto, come ripete a ogni gol. Due minuti e Mertens confezionava un assist sontuoso per Jorginho che la metteva alle spalle di De Sanctis con un tocco delizioso. Tre a zero. Tre a zero alla Roma. La squadra dalla difesa impenetrabile, che ne aveva subiti tre soltanto alla Juventus Stadium. E che con noi per ben cinque volte (in otto giorni) è stata costretta a recuperare il pallone in fondo al sacco. Eppure i cori non erano per quei ragazzi.

Non è un caso, secondo me, che al momento della sostituzione Marek Hamsik abbia invitato il pubblico a tifare, a esultare, a farsi sentire. Si è sbracciato Marek. Come forse non aveva mai fatto. Chissà, forse come a dire: “Ci siamo anche noi, siamo noi che stasera abbiamo sudato la maglia, noi che abbiamo riportato il Napoli in finale di Coppa Italia. Noi che stiamo lavorando ogni giorno, da mesi, per riportare Napoli in alto”. È un mio pensiero, ovviamente. Avrei fatto lo stesso. In conferenza stampa, guardata alla tv, ho percepito una smorfia di Rafa quando gli hanno chiesto di Maradona e dei cori del San Paolo: «Non li ho sentiti – ha mentito – e poi ha rimarcato la prova dei suoi ragazzi».

Ho provato di nuovo rabbia. Così come l’ho provata quando Lia Capizzi, di Sky Sport24, ha raccontato di caroselli a Napoli, di fuochi d’artificio sparati nei quartieri popolari. Il messaggio era sin troppo chiaro: “quei bifolchi stanno festeggiando una finale di Coppa Italia con il loro idolo, sono fermi a trent’anni fa”. Ci hanno di nuovo, un’altra volta, l’ennesima, relegato nel cantuccio oleografico. Gli eterni nostalgici fermi agli anni Ottanta. Quelli che solo indietro possono guardare perché consapevoli che tanto non vinceranno più. Ne scrivemmo già, proprio dopo Roma-Napoli di campionato.

E tristemente oggi leggo sulla prima della Gazzetta dello Sport: “effetto Maradona”, oppure sul Mattino “MaraNapoli”. Come se avesse giocato lui. È cronaca, figurarsi. Lo stadio ha inneggiato a lui. L’equazione è sin troppo semplice. Gliela abbiamo fornita su un piatto d’argento. Non si parla d’altro, oggi.

Ora tocca ricordare Maradona. C’è il paragrafo “espiazione”. Eccolo: ricordo tutto di Maradona. Tutto. Potrei partecipare a quiz internazionali sui sette anni a Napoli. Avevo 14 anni quando arrivò e 21 quando andò via. Era il 1991. “Chi ama non dimentica”. Appunto. Nessuno dimentica. Ma siamo egoisti. Arroganti. Prepotenti. C’è chi Diego non lo ha mai visto: i nostri figli, i nostri nipoti, i nostri fratelli e sorelle minori. Per carità, la leggenda va tramandata. Ma, in campo, c’erano ragazzi che stanno costruendo un nuovo Napoli. Un Napoli che, per la prima volta dopo Diego, potrebbe davvero vincere qualcosa di importante. Di storico. È cambiato tanto in pochi mesi. Due anni fa a quella finale di Roma ci arrivammo come si arriva a un’ultima recita. Nel bene e nel male sapevamo che sarebbe stata l’ultima occasione. Era un punto d’arrivo quella finale. Questa, invece, è un punto di partenza. Per un viaggio che andrebbe vissuto. Qui e ora. Senza rinnegare il passato. Mai. Però dando il giusto risalto al presente. All’oggi.

Sì, si sfocia nella retorica. Ma ieri è stata la vittoria di questo gruppo. Di Reina, che ha compiuto un intervento prodigioso su Destro a inizio partita, e che ha superato momenti difficili: perché, nella vita, i momenti difficili ci sono. Per tutti. Di Maggio, che ha fornito un cross che sa di lavoro, tanto lavoro, tanta applicazione; che ci fa capire cosa vuol dire stare lì a provare a migliorarsi, anche se hai trentadue anni e ti danno per finito. Di Fernandez, il brocco che sta sullo stomaco a tutti. Di Inler, pubblicamente elogiato da Rafa Benitez per il suo impegno. Di Callejon, che abbiamo quasi deriso quest’estate e che si sta rivelando uno dei tre acquisti più azzeccati della serie A, forse il migliore in base al rapporto qualità/prezzo. Di Higuain, un campione, un fuoriclasse che ha rischiato sulla propria pelle, e ha accettato il trasferimento in una città che non ha MAI vinto nulla tranne in quegli anni.

Sono loro – e mi perdoneranno i giocatori non citati, ma ci sono tutti, tutti – loro che hanno battuto la Roma 3-0 ieri sera. Loro che hanno conquistato dodici punti in Champions. Loro che lavorano e sudano per il Napoli. Loro. Guidati da un uomo fantastico. Un grandissimo lavoratore. Un uomo dalle spalle larghe. Un uomo che ci mette sempre la faccia. Che non si tira mai indietro. Che va avanti con le proprie idee. Un uomo coraggioso. Che ha accettato di venire a Napoli quando avrebbe potuto tranquillamente navigare nella prima classe d’Europa. Che – proprio come Maradona – ha accettato Napoli perché “tiene gana de amor”. Vuole sentirsi amato. È il suo desiderio più grande. Vorrebbe renderci felici.

Come facciamo a non capire tutto questo? Amore eterno per Maradona. Rispetto e stima inestimabili. Ma in campo ci vanno loro. Celebrare il presente non vuol dire rinnegare il passato. La vita è quella che stiamo vivendo. Lo dobbiamo a noi e soprattutto a chi è venuto dopo di noi. Non viviamo sempre con la testa rivolta all’indietro. Rischiamo di perderci un film che potrebbe non tornare più. E rischiamo di perderlo perché stiamo ancora parlando di quello – straordinario – di trent’anni fa. La vita continua. Rendiamocene conto. E proviamo ad apprezzare quel che abbiamo. Questi ragazzi, questo Napoli, meritano i nostri cori, i nostri applausi. Hanno vinto loro. Non Maradona. Maradona ieri era uno spettatore. Il più illustre di tutti. Ma sempre spettatore.
Massimiliano Gallo

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