Stasera torno in curva. Non ci vado da tanto tempo. Precisamente dall’1-5 contro il Bologna. C’era Zeman. Coppola in porta. E tutto quel che ricordiamo. Allora, andai in curva B, la mia curva. Non ci tornai più perché ebbi una discussione: a un certo punto pretendevano che il pubblico si girasse. Io invece ero lì per guardare la partita, fosse pure quello scempio. Fu l’ultima volta lì. Erano stati tanti, troppi, i ricordi vissuti su quei gradoni. All’epoca erano solo gradoni. Bellissimi. Senza quei sediolini rossi, così antiestetici e così fuori registro.
Li avevo sempre desiderati quei gradoni. Da quand’ero piccolo e andavo con mio nonno (o mio zio) in Tribuna laterale, quella che oggi è la Tribuna Nisida. Buona parte del tempo io guardavo a sinistra. Ero affascinato dal tifo. Da piccolo, due erano le cose dello stadio che mi affascinavano, oltre il pallone e il manto erboso: il tifo delle curve e le male parole. E quelli che a fine partita buttavano le scarpe in campo e tornavano scalzi. Poesia allo stato puro. Come il vecchietto davanti ai Distinti che girava col suo cartello: “È colpa tua se i figli non ti obbediscono: ci dai troppi soldi in tasca”. E potrei continuare con le drinkpack, goduria massima, e altro.
Poi, un giorno, arrivò il coraggio della richiesta: posso andare in curva B? Avevo 15 anni ed ebbi l’abbonamento. Rimasi lì fino al 1990. Il primo anno di Diego lo vidi nei Distinti.
Arrivavo tanto tempo prima in curva. Ancora oggi mi piace arrivare prima allo stadio. Mi piace vederlo riempirsi. Quando entro sotto sotto, mi sento a disagio. Come se mi fossi perso qualcosa. Qualcosa di importante. Di quegli anni in curva B, ovviamente, ho mille ricordi. Su tutti, l’uomo con la damigiana di vino. Offriva vino su quei gradoni. Oggi sarebbe impensabile. Su quei gradoni, nelle partite clou, si stava in due, talvolta in tre, uno dietro l’altro. Quando pioveva, ciascuno doveva trovare lo spiraglio giusto per riuscire a guardare il campo.
Lì, su quei gradoni, forse per la prima volta vidi adulti in ginocchio piangere. Il giorno in cui battemmo la Juventus. La punizione a due in area. Diego. E tutto il resto. Lì, su quei gradoni, tre anni dopo, vidi altre lacrime. Di altro tipo. Fu il giorno della frattura. Da quel giorno alcune facce, in curva, non si videro più; ci fu una trasformazione antropologica. Ma ormai sono trascorsi ventisei anni, è acqua passata. Ricordo tutto di quei gradoni: la caduta rovinosa al gol di Francini contro il Real (impiegai un po’ di tempo per recuperare la posizione), il gol di Bergreen, l’incrocio (non ancora rabona) di Diego contro il Torino (in tanti esultarono al gol di Caffarelli; in tanti rimasero con le mani nei capelli e la bocca aperta), il gol di Renica al 119esimo contro la Juve. E potrei continuare all’infinito.
Sempre lì, in quella curva, andai a vedere la prima amichevole post Diego, a Ferragosto. Allora era tradizione. E ascoltai quell’esclamazione su Zola: “Lievete chella maglia ’a cuoll”. Poi tante altre partite sparse. Fino a quell’1-5. Stasera torno in curva. Nella A. Settore da me praticamente ignorato. Credo di esserci andato una sola volta, e nemmeno ricordo la partita. Un tempo, lì sopra, c’era il tabellone. Alla sinistra, la tribuna laterale superiore era occupata. E senza gabbia. Un tempo, soprattutto, avevo dieci decimi di vista.
Massimiliano Gallo