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La deriva del calcio italiano e le responsabilità del giornalismo sportivo

Le curve italiane sono diventate centri di potere economico e politico, esistono rapporti incestuosi tra parte di queste e i club, gli allenatori, i giocatori, i giornalisti e i politici, gli uni contro gli altri armati. Questi, secondo me, in estrema sintesi sono i mali (il male?) del calcio italiano che continua a stupirsi degli episodi più violenti e drammaticamente mediatici (ecco perché «Genny ’a carogna» vale più di Ciro Esposito), reclamando tolleranza zero e titillando la voglia di leggi speciali da parte di una politica impreparata e per certi aspetti connivente, soprattutto nel momento in cui promuove interrogazioni parlamentari per rigori non dati mentre il Paese agonizza sotto i colpi della crisi economica. Chi minimizza, chi fa controinformazione, è in malafede, rapporti della Digos e fatti ripetuti nel tempo ci dicono questo, ragion per cui il primo nodo da sciogliere è rappresentato proprio da quei legami insani che fanno marcire l’intero movimento.

Perdonate l’ingenuità, ma io concepisco il calcio come tifo per, con tanto di fair play e rispetto per l’avversario, il resto non m’interessa, mi fa schifo e rabbia, perché crea in me un sentimento fastidioso: l’impotenza. Quello stesso sentimento che ha guidato il mio cuore e la mia voce nell’intervento di sabato scorso a Radio Vaticana (per chi avesse voglia e tempo di ascoltarlo è il primo del programma http://www.vaticanradio-us.org/webcasting/non_solo_sport_1.mp3). Non amo gli ultrà, diciamo che non amo coloro che si fanno chiamare tali per rendere gli stadi e dintorni terra di nessuno, distinguo opportuno visto che non amo nemmeno sparare nel mucchio. Non amo chi non guarda la partita, chi sta di schiena per controllare il proprio territorio, non capisco e mai capirò come si può frequentare uno stadio per infischiarsene dello spettacolo che ventidue calciatori cercano di dare in campo: il football è quello, il resto è solamente cornice, fatevene una ragione.

Ho riflettuto spesso sul fatto che la parola ultrà abbia un’etimologia di derivazione politica, però mi fa specie che la società contemporanea, italiana in particolare, abbia mutuato il linguaggio delle curve trasformandolo in gergo di vita quotidiana, a scuola come sul lavoro, per strada come tra i banchi del Parlamento, ma, a mio avviso cosa peggiore, addirittura sui giornali. Un linguaggio non è solo goliardia, non è solo volgare imitazione, un linguaggio esprime anche una cultura o una subcultura. Viviamo in un mondo dove l’altro, che non appartiene alla nostra cricca, alla nostra casta, al nostro clan o alla nostra famiglia, è un nemico e il nemico deve essere abbattuto (questione di linguaggio e cultura); significa che l’altro vince solo perché aiutato; in un Paese senza merito significa non riconoscere mai quello degli altri. La deriva credo sia sotto gli occhi di tutti.

Se non c’è alternativa a tutto quello che il calcio italiano è diventato chiudiamolo, ora, subito, senza remore. Paura? I bene informati ammoniscono con i contratti di pay tv e sponsor, ma forse non conoscono il significato della parola «rivoluzione», altri pensano sia impossibile accusandosi vicendevolmente. Tutti dimenticano, però, quanto segue: c’è tanta gente che non ama il calcio, ce n’è altrettanta che non ama più questo calcio, c’è chi giornalista come me lavora anche senza, ci sono tante persone che sanno cosa fare la domenica anche senza il calcio. Pensare quindi che non succederà mai perché «se in Italia togli il calcio chissà cosa può accadere…» è pericoloso e porta dritti verso il baratro. Veramente pensate che il calcio non può essere cambiato e che siamo costretti ad accettarlo così com’è? Così come ce lo propongono certe curve e ce lo raccontano certi giornalisti? A me dispiacerebbe tantissimo se chiudesse la serie A, certo, ma sono disposto a pagare questo prezzo pur di non continuare a sentire e vedere lo schifo che ogni domenica ha come palcoscenici i nostri stadi: dal Vesuvio all’Heysel, da Paparelli a Superga, da Facchetti a Scirea, con tutte le violenze annesse e connesse.

Non credo nemmeno che la repressione e le leggi speciali possano servire (senza una reale volontà politica e investigativa), serve semmai un cambiamento di rotta, di cultura sportiva, di atteggiamento e anche di storytelling. Il modello inglese? Mi piacerebbe, ma sappiamo tutti che gli hooligans ancora esistono e si picchiano altrove, perché la violenza è difficile da estirpare dalla società, la differenza vera è che non lo fanno più negli stadi (diciamo quasi), che di fatto certe persone sono state allontanate dal calcio: con le leggi, impianti di proprietà, la sicurezza pagata dai club, i prezzi di biglietti e abbonamenti elevati. Lo so in Italia non sarebbe politicamente corretto. Ma basti vedere cosa è oggi la Premier League e cosa la serie A. È anche vero che si sta consacrando un movimento dal basso contro il football patinato dei grandi investimenti, ma si deve basare per forza su una cultura sportiva condivisa, altrimenti è morto prima di prendere il volo.

Oggi va di moda la telecronaca del tifoso, va di moda il giornalista ultrà (ben remunerato) che su quelle trasmissioni pseudonazionali si offende col collega (?), si sputano addosso dicendosi le peggio cose. Allegorie? No signori, business. Ecco la differenza: un giornalista che ha una claque ultrà non è solo famoso nella sua cerchia e per osmosi (ultrà) nelle cerchie altrui ma ne trae profitto, sia che vada in televisione, che scriva, parli in radio o abbia un blog. Credete veramente che facciano quello che fanno gratis? Non mi fate ridere. Fatto sta che, oggi, o sei così o rischi l’irrilevanza. Il problema vero, inoltre, è che i grandi network oramai si sono venduti alla pancia peggiore del tifo e se ogni volta che c’è una partita delicata si martellano le menti semplici 24 ore al giorno, ricordando solamente sgarri e becere rivalità, è come caricare l’ambiente a pallettoni, per poi moralizzare quando accade il peggio, quando (appunto) si spara e qualcuno muore o rischia la vita.

Mi sono convinto, oramai, che il mainstream calcistico non è più competente e non sapendo raccontare (storytelling) il calcio attraverso storie, personaggi, tattica, tecnica, storia, preferisce far scadere tutta nella battuta, nella frase a effetto, nello striscione, facendo proprio il linguaggio ultrà, inteso nel suo senso peggiore. Capite bene quanto queste mie idee mi facciano ben volere da colleghi e ultrà (tifosi, chiamatevi come vi pare, è il comportamento che fa la differenza), tanto sono convinto che ogni categoria di per sé sia indifendibile, ma ho fatto questa scelta, l’ho fatta tanti anni fa come persona dopo l’Heysel, l’ho rifatta quando ho iniziato a fare il giornalista.

Immagino che ci saranno commenti, spero non offese, e perdonatemi se non risponderò, ma domani ho un impegno troppo importante. Domani ad Arezzo seppelliamo Otello Lorentini. Chi era Otello? L’uomo che, insieme all’avvocato italobelga Daniel Vedovatto, ha sconfitto l’Uefa (sentenza storica che ha fatto giurisprudenza) nelle vesti di presidente dell’«Associazione tra le famiglie delle vittime di Bruxelles», dove il 29 maggio 1985, allo stadio Heysel, prima della finale di Coppa dei Campioni Juventus-Liverpool morirono 39 persone, di cui 32 italiani, per colpa degli hooligans inglesi, delle autorità politiche e sportive belghe e dell’Uefa. Otello all’Heysel perse l’unico figlio Roberto, medico di 31 anni medaglia d’argento al valor civile per essere morto tentando di salvare un connazionale, molto probabilmente la vittima più piccola: l’undicenne Andrea Casula. Da quel momento ha trasformato il proprio dolore in battaglia civile. Prima creando l’Associazione, poi citando l’Uefa direttamente nel processo quando in primo grado in Belgio erano stati tutti assolti, infine sconfiggendola e rendendola responsabile delle manifestazioni che organizzava e organizza.

Cosa c’entra tutto questo con il Napolista? Lo dovete chiedere a Massimiliano Gallo che mi ha chiesto di scrivere, che mi onoro di conoscere come persona e collega e che insieme ad altri ha creato questo luogo sul web nel quale spesso mi sono sentito rappresentato, pur non essendo napoletano e non tifando per il Napoli. Ah proposito, amo Napoli e il Napoli, nel senso che considero questa città e la sua squadra protagonisti della storia di questo Paese e del suo sport, giustamente molti di voi diranno «ecchissenefrega», ma avendo seguito dall’inizio della stagione questo sito mi sembrava invece doveroso chiarire alcuni concetti base che in Italia non paiono patrimonio comune e condiviso. Si parte anche da qui, almeno credo.
Francesco Caremani

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