Nascondetevi pure dietro la camorra, tanto lo sapete che siamo alla metastasi del calcio italiano

Erano le nove di sera. E non cominciava niente. Erano le nove di sera e i cellulari erano bloccati dalla congestione delle linee. Era l’ora della partita e in uno stadio gestito da organizzatori pagati a peso d’oro per comunicare col mondo non c’è mai stata una parola su cosa sarebbe accaduto dopo pochi minuti […]

Erano le nove di sera. E non cominciava niente. Erano le nove di sera e i cellulari erano bloccati dalla congestione delle linee. Era l’ora della partita e in uno stadio gestito da organizzatori pagati a peso d’oro per comunicare col mondo non c’è mai stata una parola su cosa sarebbe accaduto dopo pochi minuti e su cos’era accaduto fuori dallo stadio. Tanto chi doveva sapere sapeva e tutti noi altri al buio.

Erano le nove e un quarto e due presidenti di società sono andati a trattare con i soliti noti l’inizio della partita. Erano le nove e un quarto e correvano le voci più folli, mentre le famiglie riuscivano a far passare qualche sms angosciato cui non si riusciva a rispondere: c’è un morto, c’è uno del Napoli sparato, c’è uno sparato ma non c’entra niente il calcio, forse sono stati i romanisti. A un certo punto,fra quelli dei coinvolti è apparso il nome di uno, già reduce della “domenica del bambino morto” (cercate su google), una cosa come questa successa all’Olimpico tanti anni fa. E la sensazione che le cose fossero assai complicate si è fatta strada.

Ma non si sapeva niente. Un biglietto comprato fra mille difficoltà logistiche e di scartoffia e il rispetto delle leggi non danno diritto a informazione, incolumità e libertà dalle intimidazioni.

Poi comincia la partita. E “quelli” stavano zitti e non tifavano, e poi quelli si infiltravano dalla curva nord, ci minacciavano noi che dissentivamo apertamente da quel silenzio del tifo che ubbidisce a una logica di ricatto e minaccia – sono stato minacciato anch’io: “adesso ti vengo a parlare, vecchio”. Bullavano gente che aveva pagato 90 euro, gente che abbassava la testa – ho sentito un ragazzo napoletano piangere di rabbia. Era venuto da Milano in auto e ci sarebbe tornato nella notte. Per veder giocare il Napoli e chiedeva a me, come uscire da Roma sano e salvo, “per non incontrare quei malamente” e “perché perché, ditemi, non posso fare il tifo per la mia squadra?”. Un paio dei “malamente” sparavano saluti romani di qua e di là.

Vedete, cominciamo dalla vergogna prodotta da quelli che parlano il nostro dialetto. Ma ora ci assale il dubbio. Leggendo ciò che già scrivono i giornali on line. Che questa diventi una faccenda di camorra, cosa che è “anche”, ma certo non è una faccenda “napoletana”. Ci si mette anche Saviano, che a volte come quei medici iperspecializzati che sanno tutto della “loro” malattia, non vede la “storia”, il tessuto di vita della malattia cui si applica. Come se il fenomeno ultrà fosse solo napoletano. Come se non fosse chiaro, fin dalla sera della domenica del caso Gabriele Sandri, che gli ultra sono diventati un soggetto politico antagonista nella società italiana. Con sue logiche, una sua enorme forza, con un suo specifico potere di ricatto.

E quindi si leggono titoli da istigazioni a delinquere contro Napoli e il tifo napoletano: scusate eh, eravamo tutti napoletani, noi vittime di quei signori là dentro. Ma oggi, pare che alcuni miei colleghi giornalisti abbiano scoperto che c’è un calcio che si fa ricattare dagli ultra. Ma davvero. Oggi, Fabrizio? E sì perché, come dice il mio amico Fabrizio Bocca, bisogna chiuderlo, il calcio italiano. Vuoi chiudere cosa, Fabrizio? Lo hanno già chiuso loro il calcio, escludendone noi gente per bene, noi che veniamo perquisiti tre volte prima di entrare, noi cui tolgono una boccetta di gocce medicinali perché può diventare un’arma. Noi che il pallone ci riduciamo a guardarlo a casa perché abbiamo paura. Semplicemente abbiamo paura. A Napoli, a Roma, a Milano. A molti che conosco piaceva andare in trasferta. Non lo fanno più.

Cari colleghi, mi sorprende sempre quando non siete lucidi.

Ma vi è passato per la testa di unire i punti e guardare l’insieme del quadro? Avete pensato a quello che è successo quest’anno un po’ dovunque con la discriminazione territoriale contro Napoli, contestata in primo luogo dal partito degli Ultrà di Napoli?

Stava semplicemente succedendo – nonostante le alte grida di Fabio Caressa, direttore di Skysport e le critiche argute della Gazzetta – che un minimo di criterio nella lotta ai comportamenti estremi negli stadi, anche verbali, la si stava applicando. Per difendere la loro alleanza con quei signori là, alcuni presidenti di club hanno rispolverato perfino lo stato di diritto e la libertà di espressione. Questa appena accennata ripresa di legalità andava stroncata.

Il tifo ultrà doveva consumare due guerre: una interna, fra napoletani e romanisti, in corso da anni ed anni. L’altra con il potere e il governo. Per aumentare il suo peso politico, per far sapere che a loro l’educazione non la insegna nessuno. Lo hanno fatto. È successo. Sono le loro elezioni queste.

Ora potete dire che c’entrano i napoletani e la camorra. E fingere ancora di non vedere il Partito Sommerso che vive negli stadi italiani. Sono molti. La sera di Gabriele Sandri, laziali e romanisti a Roma, interisti e milanisti a Milano, misero alle strette la polizia, ma alle strette di brutto. Contano a Torino, contano a Bologna, contano di più dove non si vedono, dove stanno tranquilli, nelle città “civili” dove poi si sparano fra loro. Cronaca nera d’altri “ambiti”, al primario Saviano sfugge.

Decidete voi cosa fare: o la nenia dell’anticamorra o la presa di coscienza che c’è una metastasi nel calcio italiano che si serve del pallone per fare politica. Dura da, grosso modo, trent’anni. Ogni tanto fa un morto. E ha distrutto uno spettacolo meraviglioso, creando la mostrificazione burocratica per gli onesti, senza liberarli dalla paura.

È un nemico che andrebbe affrontato con le armi dell’ordine pubblico e insieme della politica. Oppure noi, il partito di quelli che non oltraggiano la memoria di Raciti, il poliziotto di Catania ammazzato da loro, ogni due minuti, di quelli che pagano cifre grottesche per vedere una partita in condizioni di pericolo e tensione, noi che che nascondiamo le sciarpe nella giacca per paura di esser pestati, magari dai “nostri” (puah!), continueremo a dover scegliere: o la paura o la televisione. E chissà che a qualcuno non faccia comodo la seconda cosa.

4 maggio 2014 – ore 4 del mattino

Vittorio Zambardino

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