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Messi, butta quella palla dentro e manda affanculo il mondo

Un uomo solo e poco altro intorno. Il numero 10 incollato dietro la schiena. L’attesa evidente dei compagni che fosse lui a inventarsi qualcosa. È stato impressionante come ha portato in semifinale l’Argentina. Arena Corinthians, la sera del 9 luglio. Questo è il flusso di pensieri che in sottofondo accompagna la semifinale mondiale con l’Olanda, mentre gli occhi si attaccano a quel folletto bassino con la maglia che gli scende larga lungo le spalle. Si guarda lui e si pensa all’altro. Si osserva Messi e si vola col ricordo a Maradona. Un uomo solo e poco altro intorno. Il numero 10, l’attesa dei compagni, e lui che qualcosa inventa. Lui Diego. Un tocco, un altro, un dribbling, un’accelerazione, anche se forse nel 1986 non la chiamavano così, ormai chi se lo ricorda, sono passati troppi anni. Capello che in televisione, seconda voce di Telemontecarlo, urla: “Date la palla a Maradona, date la palla a Maradona”. La palla gli arriva e lui si inventa due gol. I compagni lo sapevano, aspettavano quello. I loro nomi, anche questi vanno ricordati. Oscar Ruggeri, il ragazzo di origini italiane, che sarebbe stato capitano della Selecciòn dopo Diego, nemico di Grondona come lui, tanto che oggi non riesce ad allenare nessun club di serie A e fa l’opinionista in tv. José Luis Brown, una comparsa, giocava nel club degli immigrati spagnoli, Maradona lo impose a Bilardo pur di non trovarsi Passarella tra i piedi, Brown fece gol in finale dopo aver passato la notte insonne, a scarabocchiare segni insensati su un foglio. José Luis Cuciuffo, buonanima, neanche il nome aveva del campione: quando lasciò il calcio aprì un bar, dieci anni fa lo hanno trovato morto con un colpo di fucile dopo una battuta di caccia. E poi Ricardo Giusti, altra figurina fragile, il cui merito principale consisteva nell’essere stato compagno di Maradona all’Argentinos, sette anni prima. Julio Olarticoechea, noto per essere il più poliedrico di tutti, nel senso che potevi metterlo ovunque e non cambiava niente, non c’era nulla che sapesse fare sopra la media, correva tanto, questo sì. Lo sgraziato Oscar Garré, uno Jorge Valdano al tramonto. Era la banda di cui si circondava Maradona. Per fortuna che almeno c’era Burruchaga. Ma tutti, Burruchaga compreso, aspettavano che si muovesse lui. E contro il Belgio, nella semifinale mondiale 1986, Maradona si mosse. Due gol inventati dal nulla: Argentina dritta in finale contro la Germania. Questi erano i ricordi mentre si giocava all’Arena Corinthians, 28 anni dopo e a 24 di distanza dal Mundial italiano, pure quello chiuso dalla stessa finale. Le due finali di Diego. Costruite da lui, volute da lui, vinte e perse da lui. Anche la nuova Argentina, quella contemporanea, chiedeva ieri sera al suo 10 di fare qualcosa per aprire il lucchetto della serratura con cui Van Gaal aveva chiuso l’area di rigore, scegliendo di congelare la partita e aspettare un istante, uno solo, per colpire, confidando nel fatto che nell’arco di 120 minuti (come avrebbe detto Nando Martellini) quell’istante sarebbe arrivato.Ma la chiave del lucchetto, Messi non l’aveva. Aveva solo addosso una condanna, mostrare al mondo di essere come Diego, la gigantesca ombra che ne accompagna ogni passo. Un peso in più, come se non bastasse quello di dover guidare una squadra. E che squadra. Non i Brown, i Ruggeri e i Garré. Ma Di Maria, Higuain, Aguero, Mascherano, Lavezzi, Garay. Valore di mercato attuale: 280 milioni di euro. Escluso Messi. Ma il 10, il 10 di oggi, non accelerava, non sbucava tra le linee, sbagliava gli appoggi corti e finanche i calci da fermo. Una visione che paragonata al ricordo datato 1986 faceva scolorire l’idea che in campo ci fosse un campione epocale. Invece c’era. Messi è un campione epocale. Ed esattamente come dicevamo a suo tempo per Maradona, almeno fino al giugno 1986, che abbia vinto o meno la Coppa del mondo cambia poco. Un campione epocale che splende nella sua attuale magrezza di idee, nelle sua nebbia di ispirazione, nella sua confusa interpretazione del ruolo di leader. Due o tre volte in questo Mondiale si è acceso con una fiammata di venti secondi e ha lasciato il segno. Non chiedete a Messi di essere Diego. Lui ne è la versione algida. Gioca e sempre giocherà il suo sublime calcio iperbarico, chiuso dentro una camera, un calcio vietato a chi soffre di claustrofobia. Messi non lascia mai la sua gabbia, la gabbia del suo club sempre uguale, del suo stile sempre uguale, la gabbia della sua vita sempre uguale, giusta, buona, corretta, monogama, mai una reazione, mai un dispetto. Messi non trascina da solo la squadra forse perché gli pare di essere sgarbato verso gli altri. Non vuole essere il più grande, non gli interessa, gli basta che lo pensiamo noi. Proprio come, all’opposto, a Diego non interessa ciò che pensiamo di lui, autosufficiente com’è nella sua naturale dimensione di campione totale, di uomo-città (a Napoli), di uomo-nazione (a Baires). Diego sta al mondo come Muhammad Ali, c’è lui e poi ci siamo noi. Sa bene che il mondo è quel posto in cui una sua vecchia foto, una foto in cui con le dita fa il gesto del numero sette, verrà presa e usata contro di lui, per raccontarlo ancora una volta cinico e malvagio, spietato, il solito Maradona che infierisce sul povero Brasile umiliato dai tedeschi. Era una foto vecchia quella che si è vista in giro in questi giorni, una foto dell’aprile del 2010, e ci voleva poco a capirlo. Bastava guardare gli occhi meno stanchi e cosa Maradona veste, la tuta della federazione argentina, perché all’epoca era il ct, oggi non la indosserebbe mai. Ma il mondo è quel posto in cui Maradona deve essere così. La foto ha fatto un giro tanto largo da arrivare a lui, a Maradona, il cui staff, su Twitter, ha preso la foto e l’ha rilanciata, facendola sua, chiudendo il cerchio, rivendicando per Diego con assoluta indifferenza verso il pensiero altrui, la propria natura di voce contro. Fosse stato Messi, probabilmente avrebbe emesso un comunicato stampa per smentire. Eppure, se l’Argentina dovesse farcela a ribaltare il pronostico e a battere la Germania, sarà giusto chiamarlo il Mondiale di Messi. Sono i paragoni con Maradona a essere fuori posto. Non servono a noi per dimostrare che Diego resta (ancora) irraggiungibile, non servono a Messi per provare a insidiarne la supremazia tecnica, giusto quella, perché per il resto gli manca la vita per essere un Mito. Non gli fate un dispetto a dirgli che non è Maradona. Non pretende di esserlo. Semmai faremmo un favore a Diego nel posare finalmente la sua corona sulla testa di qualcun altro. Un re ha il diritto di invecchiare con un erede pronto per il trono. Perciò, sbrigati Messi, domenica butta quella palla in rete e dopo manda affanculo il mondo.Il Ciuccio

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