Il suo orizzonte ero lo stadio dell’Ajax, ad accompagnarlo il profumo di mele – che vendeva suo padre e prima suo nonno – e lui, Johan Cruyff, portava lo stupore. Ha cambiato squadra, campo, paese, lingua, senza mai perderlo. Questa era la formazione base: luogo, atmosfera, capacità. Pallone, spettacolo e partite gli appartenevano, era un accentratore – che qualche volta dribblava troppo, ma quando poi si liberava del pallone con l’esterno lanciando in porta un compagno, tutti si convincevano dell’importanza dei suoi dribbling e nessuno più fiatava –, solo John McEnroe l’ha bordeggiato in tirannide agonistica. Cruyff era il calciatore senza peso, quello che agiva infischiandosene del contesto, perché ad ogni causa, principio, azione, anteponeva se stesso. E non perché non fosse generoso, no, ma perché sapeva di essere quello che stava cucendo il prima e il dopo del calcio.
Era la differenza, lo scarto, l’innovazione, con la fortuna di appartenere alla migliore generazione calcistica olandese, quella che cambiò il pallone. Cruyff era lo stupore aggiunto alla rivoluzione: il suo corpo, le sue giocate, la sua vita, erano il centro di quel cambiamento, come Parigi per il ’68. Collettore e conduttore, per capire il come e il perché bisogna fare un paragone diverso, spostandoci dal quartiere Betondorp della periferia di Amsterdam – quello di Cruyff – verso il quartiere ebraico, dove troviamo Baruch Spinoza, ad accomunarli la geometria di pensiero e passaggi. Perché se “filosofare è spinozare” come dirà poi Hegel, “giocare a calcio è cruyffare”, oggi più di ieri (vedi Barcellona). Entrambi concilieranno il dualismo mente-corpo, che consentirà a Cruyff di diventare l’unico grande calciatore capace anche di allenare (solo il cuore lo farà smettere, per portarlo a diventare il più giovane patriarca del calcio, con una statua in ogni campo). Ad unirli – stesso modo di giocare e ragionare – ci sarà anche l’assoluta necessità dell’essere che Cruyff riuscirà a imporre persino ai Catalani, e il determinismo radicale che lo porterà al ritiro e poi ad andare negli Usa (con New York Cosmos e Los Angeles Aztecs) prima del tempo (calcistico).
E giocare con entrambi i piedi lo aiuta nella pratica altissima dell’inganno, come spiega bene Jorge Valdano: «correva veloce perché stava per rallentare, rallentava perché era pronto per ripartire velocissimo, fintava il passaggio perché stava per dribblare, iniziava un dribbling perché stava per passare, guardava a sinistra perché preparava una soluzione sulla destra». Cruyff era ovunque a imporsi, stupire, divertire, in una continua trasformazione. In campo era Achab, comandava lui, e lo sapeva anche Rinus Michels – rassegnato al suo maleducato agonismo – padre putativo prima che allenatore all’Ajax e al Barcellona.
Quando lasciò la maglia numero 14 della squadra olandese per andare a vestire quella numero 9 del Barcellona, ad Amsterdam venne considerato un disertore dei sentimenti, in realtà metteva solo in pratica l’animo degli olandesi: andare alla scoperta di nuovi mondi. E lo fece assicurando le sue gambe con i Lloyd’s di Londra prima di quelle di Rihanna o del culo di Jennifer Lopez, perché Cruyff era il calciatore postmoderno, quello che non lo fermavi nemmeno fuori dal campo, dove ragionava come Steve Jobs: sono quello più cool, allora dovete pagarmi il doppio (e prendo anche la percentuale sugli incassi). Anche perché era il dispari del suo tempo. Niente gli somigliava, solo dopo da allenatore si specchierà nel suo Barcellona, una squadra che doveva attaccare, attaccare e attaccare. Ancora una volta Jorge Valdano ne riassume i segreti (è facile indovinare poi chi li ha raffinati): «per il Barcellona la strada più breve non era quella maestra. La sua paziente elaborazione era basata sull’appoggio (c’era sempre qualcuno vicino pronto a mettersi in società col portatore di palla), la mobilità (si trattava di darla e proporsi), l’ampiezza (le due fasce erano permanentemente occupate), la velocità (il pallone non stava mai fermo tra i piedi dei giocatori) e la semplicità (nessuno complicava la manovra)». È stato un calciatore inquieto, prima ha smesso, poi è tornato, infine arretrando e giocando da libero ha vinto ancora – col Feyenoord – dando l’ultimo dispiacere al suo Ajax, che poi allenerà prima del Barcellona. Con la nazionale avrebbe dovuto vincere il mondiale del 1974, ma perse, contro la Germania, come perse contro Nereo Rocco – da calciatore – , e dopo – da allenatore – contro Fabio Capello in Coppa Campioni. È lo squilibrio della bellezza, la fragilità dell’estetica, la sicurezza che poi avranno solo i Beatles, e che sempre soccombono davanti alle tendenze calcistiche più concrete. Queste sconfitte lo umanizzano, fare l’elenco dei suoi trofei non serve, a lui come solo a James Bond, bastava dire: Sono Cruyff, Johan Cruyff. Il resto è negli occhi di tutti.