Tutto è cominciato lì, in una parrocchia di frontiera, a Caivano, dove un prete dai modi spicci ed un po’ rozzi ha deciso che era giunta l’ora di provocare uno tsunami mediatico senza precedenti. Il carico di dolore dei suoi parrocchiani era ormai troppo anche per lui, andava condiviso, urlato al mondo. La gente doveva sapere che lì a due passi dalla sua parrocchia si moriva ogni giorno e che le malattie mietevano più vittime della guerra di camorra, vittime innocenti, bambini.
Mentre però la camorra quasi la tocchi, in qualche modo la senti presente, vicina, il nemico del bioprete (nomignolo che gli ho affibbiato per il suo impegno ecologista) era evanescente. Il Don ed il suo manipolo di amici/consulenti hanno subito compreso che non si poteva però lottare contro i mulini a vento, che si doveva dare un volto al nemico. Occorreva, come nella guerra in Iraq, dare la caccia alle armi di distruzione di massa e come in Iraq, dirà la storia di questi giorni, si è commesso un grave errore, perché nulla è come è stato raccontato due anni fa.
Ecco allora che non appena esce la notizia dei sequestri di alcuni pozzi ad uso irriguo nella zona di Caivano, ovviamente sui giornali prima ancora di giungere sulle scrivanie dei magistrati perché qui da noi si usa così, il Don punta il suo dito contro i prodotti agricoli di quella zona, addita i pomodori, definendoli maledetti, esponendoli sul suo altare
Su Famiglia Cristiana del 24 luglio 2013 il Don, convinto della bontà delle segnalazioni ricevute, esortava i fedeli addirittura a “non toccare” quei pomodori dal cuore malato perché nocivi. Peggio del colera, peggio dell’HIV, la peste del nuovo millennio. Le conseguenze? Disastrose per l’intero comparto agroalimentare di Caivano e della intera Campania.
La notizia fa il giro del mondo ed i prodotti della cosiddetta Terra dei Fuochi bollati insindacabilmente come velenosi. Comincia il periodo forse più buio della nostra triste storia in Campania. Ministri della Repubblica accorrono e fanno a gara per farsi fotografare sui campi con tanto di mascherina protettiva, quasi che le terre di Caivano, quelle dove si coltivava il pomodoro maledetto, o il cavolo ingiallito, potessero avvelenare anche solo per inalazione chi vi mettesse piede. Ed il buio scendeva sempre più sulle terre di Caivano, sui contadini, sulle loro sorti.
A Caivano si è partiti dai pozzi ad uso irriguo, che si volevano avvelenati da sostanze come Fluoruri, manganese etc., per poi passare ai terreni, infine ai prodotti. La magistratura ci ha messo del suo, inutile negarlo. La notizia di reato era certamente allarmante e grave e la Procura di Napoli, che ha attratto a sé la competenza sottraendola alla sede di Napoli Nord in quel di Aversa, ha immediatamente risposto con rigore e con encomiabile zelo investigativo.
Da parte loro, i contadini di Caivano hanno immediatamente compreso, tutti o quasi, di essere finiti in un tritacarne giudiziario e mediatico senza precedenti, e che la loro sorte era inevitabilmente segnata. Impensabile fronteggiare la nutrita task force tecnico/scientifico/giuridico/pastorale/mediatica gettatasi a capofitto sui terreni di Caivano. Impossibile avere spazio sui media come il Don, peraltro grandissimo ed abile comunicatore, impossibile contestare pubblicamente i dati Arpac, il Corpo Forestale dello Stato, impossibile insomma avere voce.
Ecco allora che quasi tutti gettano la spugna, le aziende agricole chiudono, storie di famiglia scolpite nel duro terreno di Caivano cancellate per sempre, danni incalcolabili per l’economia agricola della zona.
Ma racconta il vecchio adagio che il contadino avrà pure scarpe grosse ma, attenzione, ha soprattutto amore per la sua terra e cervello fino. Ecco dunque che due ostinati agricoltori non ci stanno a recitare il ruolo di agnelli sacrificali. Sanno di avere ragione, sanno che per decenni hanno coltivato la terra con rispetto ed amore e che mai avrebbero inflitto alla loro creatura pene o ferite mortali. Conoscono ogni singolo granello della loro terra e giurano che è sana, come i prodotti che lì vengono coltivati e raccolti e non ci stanno a passare per appestatori, per avvelenatori. No! il loro pomodoro non è maledetto, non merita di stare lì, su quell’altare, additato al pubblico ludibrio.
Benché al cospetto non di uno ma di decine di Golia, Davide decide che non c’è altra strada se non quella della verità. In silenzio, con il pudore di chi per una vita si è alzato alle quattro del mattino per spaccarsi la schiena in campagna senza chiedere nulla se non rispetto per il proprio lavoro, quei due incoscienti decidono di affrontare la loro battaglia giudiziaria nel tentativo di ottenere il riconoscimento , dalla legge, della correttezza del loro operato. C’è chi ha dato loro del folle, chi ha paventato ritorsioni, chi semplicemente ha chiesto loro chi glielo avesse fatto fare.
Certo è che qui il condizionamento territoriale anche in ambito giudiziario è stato tale che si è dovuti arrivare fino a Roma, in Cassazione , per sentirsi riconoscere l’ovvio, ossia che quei pozzi, quelli maledetti, quelli avvelenati, non lo erano affatto e che, viceversa, contenevano acque che per i parametri rilevati erano addirittura meglio di quelle minerali destinate al consumo umano. I due contadini hanno gioito, pianto, ma è durata poco.
L’avversario è duro e tenace, non è pronto a mollare la presa facilmente ed ecco che, messa da parte, seppure solo per poco, la teoria dei pozzi si affaccia quella dei terreni contaminati. Stavolta il veleno ha il nome di due altre sostanze: berillio e stagno. Ma come? Berillio e stagno? I consulenti tecnici dei due contadini sgranano gli occhi. D’accordo, è vero, i terreni di Caivano sono più ricchi di berillio e stagno ma, Vostro Onore, un colpevole c’è, il processo è bello che finito: eccolo è lì, fermo, immobile e sembra sfidare tutti i suoi accusatori, è il Vesuvio. Le sostanze in parola sono semplicemente di origine vulcanica, e sono “fondo naturale” ossia una caratteristica propria del luogo, al pari del fluoruro e manganese nell’acqua dei pozzi.
Il mix di queste sostanze nell’acqua e nel terreno hanno fatto di queste zone la cd. Campania Felix, mica pizza e fichi. Lo sanno tutti. Lo sa da decenni l’Arpac, lo sa l’Università di Napoli, lo sa un gruppo di studi del ministero della Salute, lo sanno gli agricoltori, lo sa la Regione Campania. Peccato che proprio la Regione non abbia ancora formalmente “validato” ossia messo penna su carta questo dato e così, pure sapendo tutti che così è, anche i tecnici fanno finta di nulla, ed il Vesuvio sta ancora lì, indisturbato, a godersi lo spettacolo.
Si sostiene che la mancanza della “validazione” del dato da parte della regione (si perché da altre fonti pubbliche altrettanto autorevoli il dato è pienamente validato e da tempo), dunque l’omissione della pubblica amministrazione, non possa che penalizzare l’incolpevole contadino ed anche la stessa magistratura, con una condanna dei terreni ad un infausto destino.
Ma i due tipi sono contadini, sono ostinati, sono cape toste ed in Cassazione ci vanno e ci vengono, pure di avere ragione, e cominciano a strappare anche i primi risultati giudiziari sul territorio. Forse, scrive un Giudice, berillio e stagno sono innocenti, chissà magari davvero abitano lì da decenni, da secoli. L’avversario, però, è coriaceo, ostinato, convinto.
Ecco allora che, all’improvviso, si ipotizza che proprio sotto uno dei terreni dei due contadini ci sia una discarica abusiva, che si sia coltivato sopra i rifiuti. Questa accusa, se possibile, ferisce ancora di più, è oltraggiosa per chi da una vita ama quella terra più della sua vita, per chi è onesto e sa di esserlo. Cosa può fare la Procura di fronte alla ipotesi di questo nuovo catastrofico scenario? Ovvio che senza indugio si risponda a questa nuova accusa con una sfida a viso aperto.
A spese proprie, con mezzi e personale pagato dagli agricoltori, si invitano tutti, Procura, Arpac e Corpo Forestale dello Stato ad una campagna di scavo sul terreno a Caivano fino ad allora senza precedenti. Si scenda fino al centro della terra alla ricerca della fantadiscarica. È luglio, fa caldo, molto caldo, una delle giornate più calde dell’anno. La terra si vendica così con chi vuole ingiustamente profanarla. Ore ed ore a scavare ovunque, a tirare fuori con una enorme pala meccanica gigantesche “manate” di terra soffice, profumata, incontaminata.
La delusione sugli occhi di chi forse voleva disperatamente emergessero dal terreno i “rifiuti” è palese ,e si trasforma pian piano in consapevolezza, in certezza. Ecco allora che quegli iniziali sguardi di sfida scompaiono, e gli occhi non riescono più ad incrociare quelli dei contadini, sudati, sconvolti per l’ennesimo oltraggio patito, arrossati da un pianto sommesso. E quando si va via, quando i profondi scavi vengono riempiti, quando ci si lascia alle spalle la terra martoriata, nessuno chiede loro scusa ed anzi già si pensa alla prossima mossa, perché non è da tutti sapere riconoscere i propri errori.
Riavvolgendo il nastro si assiste ad una incredibile storia che ci ha portato in due anni ad affacciarci in pozzi che si volevano avvelenati da sostanze (ad es. fluoruri e manganese) che avrebbero dovuto inquinare i terreni sui quali però sono state rinvenute altre sostanze (berillio e stagno) che nessuna reazione chimico / fisica avrebbe potuto generare dalle sostanze contenute nell’acqua irrigua, terreni che a loro volta avrebbero dovuto avvelenare i prodotti agricoli i quali però non solo non hanno mai presentato traccia di nessuna di dette sostanze ma sono invece risultati incontaminati e perfetti per la salute umana tanto che, fin da subito, la Procura di Napoli, pure sequestrando pozzi e terreni ne ha sempre consentito la commercializzazione.
Peccato però che quasi nessuno abbia più voluto acquistare i prodotti maledetti.
Il presidente della Regione De Luca, questa estate, dal lontano Expo lombardo, ha rassicurato tutti: i prodotti agricoli della terra dei Fuochi sono incontaminati.
Recenti indagini dell’Istituto zooprofilattico del Mezzogiorno hanno messo in evidenza come 4400 campioni di terreno prelevati nella cosiddetta Terra dei Fuochi a due diverse profondità (1,5 mt e 0,20 mt) alla ricerca di ben 52 inquinanti, 2942 campioni di vegetali e 659 campioni di acqua ad uso irriguo abbiano evidenziato l’assenza totale di sostanze nocive.
Non è terminato il monitoraggio sull’aria mentre le verifiche sulle specie animali hanno posto in luce solo due casi di presenza di diossina nel latte delle capre, in un luogo a ridosso di un’area caratterizzata dall’incendio selvaggio di rifiuti. I danni al comparto agroalimentare sarebbero stimati in almeno 100 milioni di euro e la domanda dei prodotti crollata del 40%.
Tutto questo è colpa solo di quei pomodori esposti sull’altare, di quel prete ostinato? Certamente no. Il Don però non ha compreso di avere, con la ostensione dei pomodori, in un nanosecondo emesso una sentenza di morte sui prodotti agricoli di Caivano scatenando di fatto una guerra tra poveri, mettendo agricoltori e cittadini che condividono lo stesso martoriato territorio, gli uni contro gli altri.
Nel frattempo, sono continuati i roghi tossici, la gente ha continuato a respirare diossine e chissà quante altre schifezze cancerogene, ma la gente almeno per due anni, è stata anestetizzata, ha avuto in pasto il suo nemico da combattere, i prodotti agricoli della terra dei fuochi.
Si è pensato che fosse sufficiente non mangiarne per non ammalarsi più. Sono state stanziate cifre da capogiro prima per le bonifiche poi, quando ci si è resi conto che c’era poco o nulla da bonificare, per il recupero della immagine dei prodotti della terra dei fuochi, infine per concerti sponsorizzati dalle acque minerali per spegnere i roghi tossici.
In tutto questo bailamme ho atteso fino ad oggi, invano, che si levasse nuovamente la voce del Don sui contadini di Caivano. Egli ancora inarrestabile porta il fardello sempre più pesante del dolore del suo gregge, ancora urla al mondo che bisogna intervenire a bloccare il genocidio nella nostra terra. Oggi più che mai protegge e stringe a sé il suo gregge, gli abitanti del Parco verde, annichiliti dall’orrore e da orribili storie di pedofilia ed omicidi. Di fronte a questo dolore non si può che fare un passo indietro e scegliere la via del silenzio.
Qualche giorno fa avrei urlato di riportare quei pomodori su quell’altare per dire a tutti noi fratelli che quelli non sono prodotti maledetti, che gli stessi sono sani, che i fratelli contadini di Caivano non sono degli appestatori, che c’è qualcuno, fuori da quella piccola chiesa, che ha giocato e continua a giocare con la vita di tutti noi, che quel qualcuno ha un ulteriore vantaggio di due anni su chi cerca la verità, quelli persi a demonizzare i pomodori di Caivano.
Avrei urlato con forza a Padre Patriciello di usare tutto il suo carisma per diffidare lo Stato a cercare le reali cause ed i veri responsabili dell’ecatombe che lui descrive da anni, perché noi saremo al suo fianco. Le vicende delle due piccole vittime del Parco verde hanno però cancellato tutto il resto. Non c’è spazio per altro ed ogni energia del Don è giusto venga spesa per la ricerca della verità.
Ancora una volta i contadini di Caivano, che si sono stretti vicini agli amici del Parco verde, si ritroveranno soli nella loro battaglia, con le schiene spezzate, le mani sporche di terra, la coscienza pulita.