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Quella 10 a Fini
è una profanazione

L’uso politico del calcio non è materia che possa scandalizzare o spaventare noi napoletani e napolisti. In fondo, il populismo berlusconiano che fa leva su politica, calcio e tv fu inventato qui da Achille Lauro in tempi non sospetti. Fu il Comandante, infatti, il primo industriale italiano a essere sindaco, presidente di una squadra di calcio e proprietario di un’emittente tv. Insomma, come recita il Qohelet, nulla di nuovo sotto il sole. Non solo. Dopo il crollo di muri e ideologie del Novecento, gli stadi sono diventati l’arena prediletta per decifrare cambiamenti, ribellioni e malinconie della società: le contestazioni politiche estremiste (i tifosi serbi, l’ultimo esempio, ma anche la guerriglia contro la polizia che unì laziali e romanisti dopo l’omicidio di Sandri); il ricordo di parenti e amici morti (ogni settimana ci sono striscioni commemorativi, una sorta di Spoon River permanente); la rivendicazione della propria fede religiosa (al San Paolo, nei distinti, c’è una scritta su Gesù e il Napoli). Tutto è calcio, quindi. E viceversa. Il calcio è tutto, come direbbe il mio amico filosofo Giancristiano Desiderio. In questo contesto è anche possibile che passi inosservata una notizia, anzi una foto pubblicata sui quotidiani che a me domenica scorsa ha provocato un misto di rabbia e tristezza: Gianfranco Fini a Napoli che mostra alla folla di Futuro e Libertà una maglietta del Napoli con il numero dieci e il suo nome. Fini azzurro numero dieci. Il regalo di un europarlamentare di Fli che a Strasburgo fa i suoi interventi in dialetto napoletano. Esplicito il paragone: Fini come nuovo Maradona della politica italiana dopo la sua rottura con il Cavaliere, di cui, non dimentichiamolo, è stato alleato per sedici anni. Faccio a meno di entrare nello specifico ideologico (per la serie: Fini è un professionista furbo della politica e destinato per me a morire democristiano come Pelè e Platini, l’esatto contrario di un rivoluzionario anarchico fuori dagli schemi come Diego) e mi limito all’atto in sé: la profanazione di un simbolo che per noi napoletani è una vera e propria sindone. Un onore di cui nemmeno Lavezzi è all’altezza (vedi dibattito della scorsa estate). Intestare a un leader politico (che peraltro tifa Bologna: memorabile in merito l’episodio di quando lui e Casini vedevano i rossoblu in televisione e il cane di Casini diede un morso a Fini) una maglietta diventata una bandiera è cosa penosa e inaccettabile. Continuate pure con l’uso politico del calcio (altro esempio: De Laurentiis è un Berlusconi in sedicesimo e magari un giorno cederà alle sirene dei vari Palazzi) ma lasciate stare quella sindone con il numero dieci. Fabrizio d’Esposito

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