Napolista e mamma, certo, ma la frase non rende il concetto e neppure l’idea. Perché è pietoso affannarsi ogni giorno per cercare ovunque una speranza che le cose possano cambiare. Fare di tutto per insegnare ai tuoi figli, piccoli, forse troppo, che non è per forza così che devono andare le cose, che c’è una possibilità, che si può fare, iniziando da ciò che ci sta più vicino. La scuola, per esempio, la scuola dell’infanzia, dove già da mamma di un bambino di quattro anni ti scontri con genitori assenti, menefreghisti, che ritengono inutili e futili problemi quelli relativi alla disamina delle modalità di crescita e sviluppo dei propri figli, del rappresentare una comunità.
I mezzi pubblici, che non funzionano, il traffico, che ti fa correre come una forsennata perché in cinque ore di orologio devi concentrare tutti i tentativi di costruirti (o ricostruirti) una vita, perché, dopo, ci sono i figli, e quella parte del lavoro non puoi certo trascurarla, né delegarla, proprio no. La metropolitana nelle ore di punta, carica di libri, borse, carte, perché anche nelle attese tra una corsa e l’altra (e a Napoli, si sa, la Metro può passare anche ogni 20 minuti, minuti preziosi) puoi avvantaggiarti del lavoro, un lavoro per cui ti pagano dieci euro all’ora… peccato che tu, per lavoro, insegni, non fai certo le pulizie.
Un passato universitario per cui hai accumulato un curriculum pieno zeppo di esperienze scientifiche ed accademiche, pubblicazioni, attività didattica e formativa, ma l’Università, si sa, è ferma, immobile, ripiegata su se stessa, perciò capita ancora che ti propongano di continuare a farne parte, un progetto di ricerca bello, entusiasmante, interessantissimo e, naturalmente, a titolo gratuito. E già è tanto che formalizzano la tua partecipazione al team con una lettera ufficiale: è una questione di rispetto, una questione che non è così automatica come sembra. Non qui. Non in questa città. Una città in cui devi fare le gimkane tra chilate di spazzatura, quando ti va bene, e da sotto ai cumuli non ti esce pure il sorcio, che chiamarlo così è un complimento. Una città che servizi per mamme, donne lavoratrici e bambini non ne offre, anche se sforna ogni anno una quantità notevole di bebè.
Una città senza futuro, perché la munnezza si sta divorando anche il presente. Probabilmente ci ucciderà, sotterrandoci tutti e lasciandoci inerti in mezzo a stronzate di dibattiti relativi al fatto se sia possibile o meno che una città risorga. No, ve lo dico io, è impossibile. Perché predicare bene è un conto, razzolare un altro. E allora voglio sapere davvero quanti rifiuterebbero una raccomandazione per trovare un lavoro che permetta loro di andare avanti. Perché io, anche se a malincuore, non so se lo farei. Voglio sapere quanti rifuterebbero magari l’occhio di riguardo della bidella, che promette di vigilare su vostro figlio mentre voi cercate di arrabattare qualcosa e sbarcare il lunario. Quanti, dopo dieci-venti giri sotto l’ufficio senza trovare un posto per l’auto, accetterebbero di non pagare il parcheggiatore abusivo e di recuperare magari un’ora di lavoro in uscita. Voglio saperlo ora, qui, adesso. E voglio sapere quali sono i vostri rimedi, perché sono stufa di ascoltare il solito “risorgeremo”. Chi? Dove? Quando? Vi rifiuterete di votare i soliti noti, la prossima volta? Smetterete di pagare la tassa della spazzatura anche se siete sommersi di schifo pur di non sottostare alla dittatura di Equitalia? E chi tutelerà la vostra protesta?
Su Facebook, in questi giorni, ho assistito al cambiamento delle foto profilo di milioni di persone in cartoni animati in difesa della settimana dei diritti dell’infanzia. Personalmente ho preferito aderire all’evento dal titolo “Metti un sacchetto della munnezza nella tua foto profilo fino a Natale”, pagina che vi consiglio vivamente di andare a visitare, per i contributi che ogni giorno continuano ad arrivare numerosi. Abbiamo aderito in 150, ma sarebbe fenomenale arrivare molto più in alto. E non perché un evento simile possa cambiare le cose, ma perché la partecipazione fa sentire meno soli.
Ogni giorno mi arrabatto in improbabili occupazioni, occupo tutto il mio tempo, a rischio di provocarmi un infarto, accetto qualsiasi iniziativa, proposta, stimolo (primo tra tutti Il Napolista), purché serva a farmi sentire viva, a darmi un motivo, una ragione. Sono tra quelli che si aggrappano. Sarebbe meglio lasciarsi morire, spegnere la televisione, non uscire più di casa, smettere di combattere, darla vinta a tutti loro e, così, perdere tutto, tutti insieme. Ma come si fa a vivere così, ditemi? Come? No, perché io non riesco a smettere di lottare. E dire che ho sempre pensato che Don Chisciotte fosse un gran coglione.
Anche per me il Napoli, il calcio, è una valvola di sfogo, un’oasi felice. Mi accontento un po’ più di qualcun altro perché non mi piace farmi così male, e allora se vinciamo 4-1 proprio non riesco a trovarci qualcosa che non va: sono felice, e affronto meglio un’altra settimana di stenti. Ma stiamo inguaiati, ragazzi miei, come si dice a Napoli. Perché se l’unica cosa di cui non ci accontentiamo è il Napoli, allora ci meritiamo veramente tutti i chili di munezza che finiranno per sommergerci. Pace all’anima vostra. E mia. Ma sì, Forza Napoli, va’.
Ilaria Puglia
Non ci accontentiamo del Napoli
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