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Quel che resta
della città perduta

Il Comune di Napoli, dunque, si è sciolto. Al netto di quanto clamorosamente accaduto ieri sera, con lo stop procedurale del prefetto dopo la presentazione delle firme dei 31 consiglieri. Ad essere impietosi, si potrebbe dire che saranno ben pochi ad accorgersene, dal momento che già da qualche anno tutto è avvolto nel silenzio e nell’inazione: una città senza governo, abbandonata a se stessa. A voler render l’onore delle armi, si può solo dire che il sindaco, persona di indubbie qualità morali e umane, è stata sopraffatta dalla realtà, una realtà talmente più complicata rispetto alle capacità della giunta da apparire come un gigantesco buco nero. Tutto ciò, a meno di ulteriori sorprese, appartiene al passato.Ma di fronte a questo passato, così pieno di vuoti, si apre, a sinistra, un deserto, ecco il vero dato sul quale riflettere. Un deserto di idee, di progetti e di uomini. Come se il quindicennio (e passa) di governo regionale e comunale, e per un tratto non breve anche provinciale, non lasci alcuna traccia, se non in qualche isolata personalità, di una classe dirigente pronta a competere, colta, esperta della città, responsabilmente consapevole della progressiva emarginazione di Napoli dagli standard del mondo civile. Ma c’è qualcosa di più di una carenza di uomini. C’è, a sinistra, il dissolversi di un tessuto politico che pure ha avuto grandi e nobili momenti di vita, che non è questa l’occasione per ricordare. Sotto gli occhi nostri, attoniti, si è «conclusa» in un modo che la normale coscienza civica non potrà mai accettare, la vicenda delle «primarie» del Pd, anch’esse scomparse in un punto oscuro dove tutti i gatti sono bigi, in qualche modo come la Giunta, impressionante raffronto. Nulla è più dato sapere di che cosa sia realmente accaduto, di come sia possibile che oltre quarantamila voti, quarantamila persone in carne e ossa, con i loro sentimenti, le loro volontà e passioni, siano diventate «verbali» sospesi in una oscura burocrazia di partito. Oggi, nella ricerca affannosa e improvvisata di un candidato sindaco, nomi che si inseguono, magistrati, prefetti, e magari altro ancora, (con tutto il rispetto, ovviamente per le persone coinvolte), da cui la politica è rigorosamente esclusa, come se fosse ormai un luogo giudicato impraticabile. Vuoti che si accumulano su vuoti, cattive coscienze che vivono nell’oscurità e temono la luce. Come è potuto accadere tutto ciò? Dove è finito il patrimonio di idee e di uomini che la sinistra napoletana ha sempre covato, in certi momenti addirittura in eccesso? Da dove, questo deserto che la circonda? Ecco la vera responsabilità che emerge da questo quindicennio, ed è responsabilità diffusa a molti livelli. La denuncia è proprio questa: si è rinunciato a costruire una classe dirigente, a diffondere le responsabilità, a formare una nuova generazione, a far misurare le nuove intelligenze, fresche di vita giovane, con i problemi di una città e di una regione drammaticamente accartocciate su se stesse. Qui c’è forse il vero tarlo che ha corroso una storia: si è vissuto il potere come fine a se stesso, non più illuminato da una fede, da una capacità di infondere speranza o almeno fiducia nella possibilità che un governo amministrativo fosse in grado di recepire qualcosa della vita tumultuosa di una città così piena di contrasti. Ma il potere, che gioca solo dentro di sé, che diventa «sistema», convinto della propria perennità, poi si slabbra, cede di fronte alla vita comune che preme da fuori; degenera, diventa niente, finisce anch’esso, e rimangono i suoi fantasmi, le sue immagini sfocate. E non lascia tracce se non di un tessuto che non è più politico. Ora si voterà. Che questa sia l’occasione per avviare un processo nuovo, che riapra un confronto aperto a tutti. La cosa appare difficile, ma la vita continua, come si usa aggiungere, e si deve avere la speranza che a una città come Napoli si sappia guardare, alla chiusura di un ciclo, per aprirne uno nuovo, e rinnovato.
Biagio de Giovanni (da Il Mattino)

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