Era il Napoli di Attila Sallustro, il veltro, protagonista del primo feuilleton a tinte rosa della storia del calcio italiano per la liaison con Lucy D’Albert, vaporosa soubrette arrivata dalla Russia. E di Antonio Vojak, implacabile cannoniere piovuto dall’Istria. E Napoli era un mare di pagliette, la domenica, che si accalcavano allo stadio dell’Arenaccia, a due passi da piazza Garibaldi, per incitare gli azzurri.
Era, soprattutto, il Napoli di Giorgio Ascarelli. Industriale ed ebreo. Ascarelli, il fondatore, il primo presidente: era stato grazie a lui che, nel 1926, l’antica capitale del Sud aveva fatto il suo ingresso nel mondo del football, affiancandosi all’Ambrosiana Inter, al Milan, alla Juve, al Torino, al Bologna che-tremare-il-mondo-fa.
Prima, c’era stato il Naples, fondato da un gruppo di marinai inglesi che si davano battaglia in braghe corte sui moli dai quali si staccavano i transatlantici carichi di speranze, destinazione Nuova York. Poi venne il duce, l’Italietta proletaria gonfiò il petto, cominciò a sognare l’Impero e a considerare gli ebrei altro da sé. Arrivando a perseguitarli anche da morti, attraverso l’oltraggio del ricordo.
Dai recessi più reconditi della memoria cittadina Nico Pirozzi, giornalista napoletano e storico della Shoah, ha tirato fuori una vicenda che permette a Napoli, e al Paese, di riappacificarsi con un pezzo del proprio passato. Quella di Giorgio Ascarelli, appunto, a cui giovedì prossimo, nel 73esimo anniversario della promulgazione delle Leggi razziali, sarà intitolato il piccolo stadio del quartiere Ponticelli, estrema periferia meridionale. In sé un gesto semplice, niente di particolarmente eclatante. Se non fosse per il fatto che ci sono voluti 77 anni perché l’amministrazione cittadina cancellasse per sempre una vigliaccata del regime fascista rimasta sepolta per tutto questo tempo in polverosi fondi d’archivio.
Giorgio Ascarelli fece costruire il primo stadio napoletano nel 1930, chiamandolo “Vesuvio”. Poteva ospitare fino a 20mila spettatori su eleganti tribunette in legno e fu inaugurato il 16 febbraio di quell’anno, con una goleada degli azzurri: 4-1 alla Triestina. Meno di un mese dopo, il 12 marzo, il presidente dell’Associazione Calcio Napoli fu stroncato da un male incurabile. E lo stadio, a furor di popolo, prese il suo nome. Lo mantenne fino al 1934, anno dei Campionati mondiali di calcio assegnati all’Italia mussoliniana. La finale per il terzo e quarto posto, Germania – Austria, si giocò nell’impianto costruito dal mecenate ebreo, che per espresso volere del Duce, preoccupato di urtare la suscettibilità dell’alleato germanico, era stato ribattezzato “Stadio Partenopeo”.
Nel 1934, anno del primo viaggio di Stato di Hitler in Italia, le leggi razziali erano ancora di là da venire, ma l’Italietta fascista cominciava a covare i primi germi dell’antisemitismo che l’avrebbero, più tardi, resa complice degli orrori nazisti. “In effetti – racconta Pirozzi – una parte dell’estabilishment dell’epoca aveva già aderito alle teorie razziste di Julius Evola e Giovanni Preziosi. A farsene interpreti, in particolare, furono un quotidiano molto vicino al regime, Il Tevere, e un periodico da poco nato, Il Quadrivio. A dare la rotta ad entrambi fu Telesio Interlandi, lo stesso giornalista che, quattro anni dopo andrà a dirigere La Difesa della razza, la più estremista delle pubblicazioni razziste edite nell’Italia in camicia nera”. La Germania che ospitò l’Austria nell’ex Ascarelli, riammodernato per i Mondiali (le vecchie tribune in legno erano state sostituite da strutture in cemento armato e la capienza era salita a 40mila posti) invece, si era già portata parecchio avanti: nell’aprile del ’33 gli ebrei erano stati cacciati dalle scuole e dalle università tedesche, e in quella primavera del 1934, mentre tutto il mondo guardava all’Italia per la seconda edizione della Coppa Rimet, in migliaia avevano già trascorso l’estate e l’inverno nel campo di sterminio di Dachau. Orrori che l’intrepido fondatore del Calcio Napoli si era risparmiato, senza peraltro riuscire ad evitare la spietata nemesi ordita dal regime, già nel ’34 succube della follia hitleriana.
Lo stadio costruito da Ascarelli non sopravvisse alla guerra: fu bombardato e raso al suolo dai bombardamenti alleati nel 1942. E il lungo dopoguerra seppellì quella storia, riemersa tre anni fa, quando il Consiglio comunale votò all’unanimità una risoluzione affinché il campo sportivo di Ponticelli venisse intitolato a Giorgio Ascarelli. Settantasette anni dopo, giovedì si sutura quell’antica ferita.
Massimiliano Amato (tratto da l’Unità di oggi)