Qualche giorno fa un amico che vive a Londra mi linka questo articolo del Guardian dello scorso 3 novembre. Il titolo recita “Il City studia piani di sicurezza per la partita di Napoli”. Il primo paragrafo ribadisce il concetto, aggiungendo che la dirigenza del club inglese si sta confrontando con quelle di Liverpool e Manchester United, che hanno esperienza di trasferte italiane (i primi nella stessa Napoli, i red devils a Roma, Milano e Torino) per trarne utili consigli.
Trattandosi di un pezzo di cronaca sportiva (e non avendo letto il sommario), inizialmente non colgo il senso, ma mi faccio l’idea che Mancini stia puntando al pareggio al san Paolo e vengo preso da un fremito d’orgoglio. Mi sbaglio. Continuando nella lettura capisco che per sicurezza non si intende quella del risultato e della qualificazione agli ottavi, ma quella relativa l’incolumità dei circa tremila supporters del City che seguiranno la loro squadra all’ombra del Vesuvio.
Ok, nulla di nuovo, quindi ci rimango male ma poi non tanto. E’ di qualche tempo fa la notizia che le agenzie turistiche inglesi per lo stesso motivo stanno vendendo la trasferta a Napoli con pernottamento a Sorrento, così come è annosa la questione degli orologi di plastica per i turisti. Non c’è persona che visiti la città senza il timore di essere rapinata, è un fatto noto e consolidato.
Scorrendo ancora l’articolo trovo una ragione in più per meravigliarmi. Scopro che il timore dei Citizens non riguarda la grande criminalità o la violenza da stadio nella sua accezione classica (orde di ultras che si scontrano con moltitudini di hooligans), ma un qualcosa che, evidentemente, nel panorama europeo è nuovo o comunque insolito: gli agguati, gli attentati lampo che il più delle volte si consumano lontano dallo stadio e molto prima della partita.
“Ci sono gruppi di italiani che pattugliano le strade, spesso su motorini, alla ricerca di supporters avversari (…) le aggressioni sono all’arma bianca e consistono in coltellate alle gambe, alle spalle e alle natiche (…) i tifosi tengano conto del pericolo, ci sono zone della città da evitare ed è importante non isolarsi ma muoversi in gruppo”. Parola più parola meno, è questo il senso dell’articolo.
Salva in minima parte l’onore la circostanza che questo della violenza indiscriminata viene percepito dall’osservatore inglese come un problema italiano (con particolare riferimento alle tifoserie romane) e non solo partenopeo, ma è chiaro che gli incidenti che hanno preceduto Napoli-Liverpool lo scorso anno e Napoli-Bayern qualche settimana fa hanno pregiudicato la nostra immagine. E Napoli di tutto aveva bisogno tranne che di essere considerata pericolosa per un motivo in più.
L’amico londinese mi chiede: “come commenterà il Napolista?”. Eh, bella domanda. A caldo mi viene da rispondere: “cari ultras, cari cani sciolti, per lo meno nell’aggredire i tifosi stranieri siate cavallereschi: individuate qualcuno con la giusta attitudine alla violenza pronto a menar anch’egli le mani, così almeno sarà uno scontro alla pari. Ma lasciate perdere la famigliola o la comitiva innocua che si è andata a mangiare la pizza e sta tornando in albergo, che è venuta a Napoli per vedere la partita e scoprire la città e i suoi tesori artistici, e non certo i suoi Pronto Soccorso”.
A freddo, il problema è più grave e sconfortante. Per controbilanciare l’immagine di civiltà violenta inospitale che rischiamo di proiettare all’estero ci vorrebbe una di quelle campagne di fraternizzazione che una certa anima di questo sito sa animare. Altrimenti la foto che correda l’articolo del Guardian (nella quale supporters azzurri esibiscono il cartello “Are you italian? No, Napulitan”) assumerà un’accezione totalmente negativa. Invece che la rivendicazione orgogliosa di un popolo fiero della propria identità, sarà letto come la consapevolezza di chi sa di essere diverso.
Roberto Procaccini