Io davvero credo ci siano momenti, a volte, in mezzo al nulla, di una tale poesia che è quasi difficile descriverli a parole. Attimi in cui è racchiusa l’essenza di quello che dovrebbe essere il calcio, spesso la vita. Immagini, fotogrammi, roba di pochi istanti. Una corsa furiosa in cerca di qualcosa, per esempio, con o senza scarpe machissenefrega? Avete capito di che parlo? Novara-Napoli. La partita che nessuno avrebbe voluto vedere, ma che tutti ci aspettavamo sarebbe finita così. Personalmente, è stata la prima volta da che ho memoria, che il giorno dopo l’ultima partita disputata non ho iniziato subito a pensare alla successiva. Insomma, come dire che ero rimasta ferma al Madrigal. E ci sta, perché quando entri di forza nella storia una fermata allo stop del Paradiso ci sta. Insomma, capita che Lavezzi durante la partita sul sintetico del Silvio Piola perda uno scarpino. È quasi all’altezza della bandierina del corner quando ti accorgi che c’è qualcosa che vola, qualcosa di giallo e rosso, ti pare. Allora ti allunghi sul divano romano che ti ospita e ti soffermi un attimo a guardare meglio, ma quello continua a correre come un pazzo e tu non riesci a togliergli gli occhi di dosso. Corre, corre, chissà dove diamine corre, pensi. Poi l’azione si interrompe e allora te ne accorgi. Lo vedi che torna indietro e che si ferma ad infilarsi di nuovo lo strumento. Pochi minuti (quanti?) in cui c’è solo un piede che indossa un fantastico calzino giallo che calcia il pallone, se lo tiene attaccato a quel calzino come ci fosse la colla, senza zoppicare nemmeno, un dribbling senza scarpino. Chi non ha scarpe non ha padroni, cantava Fossati e allora ti verrebbe di rivedere quel filmato ancora e ancora e di tenere il dito pigiato fisso sul rewind fino alla noia che non verrà mai. Io non l’ho mai osannato Lavezzi, mai, e per questo forse quell’immagine è rimasta scolpita così netta dentro di me. Più del momento della sostituzione di Hamsik con il Villareal, più di Cavani che dopo aver segnato contro il Manchester al San Paolo si stende gioioso a metà tra la curva e la Nisida. Più di tutto e di tutti, il Pocho. Uno che quest’anno ha grinta da vendere per 22, che le inquadrature televisive ritraggono sempre concentratissimo, cattivo, che corre e corre e si lacera muscoli e cervello alla ricerca di uno spazio da infilare come un forsennato. Che prende in braccio e sulle spalle tatuate tutta la squadra e non si ferma mai. Uno che mantiene la lucidità folle pure quando di lucido in campo non c’è niente, manco il cielo scuro e nebbioso di Novara. Uno che le difese le squarcia, che se avesse il piede più preciso giocherebbe nel Barcellona. Uno che, finalmente, non fa parlare di sé per quello che fa fuori dal rettangolo di gioco, perché quando ci sta dentro, a quel rettangolo, sembra che non voglia altro dalla vita, che sia nato per quello, che da quello tragga linfa e felicità, che voglia quasi strapparlo dal suolo, quel rettangolo, impacchettarlo e metterlo sotto l’albero di Natale a futura memoria, per te. Uno che sorride da scugnizzo e che come uno scugnizzo corre per i vicoli che si disegna da solo in mezzo a maglie che non sono quelle della sua squadra. Sono contenta non si sia fatto ammonire perché è un piacere guardarlo giocare così, cazzuto, come direbbe la mia Lisa. Perché mo c’è la Roma, domenica, e io sto già là. E me lo voglio guardare ‘sto Pocho. Quest’anima napoletana. Ah, Lavè. Ce n’è voluto, ma mi hai fatta innamorare, eh. E son tante cose. Una felicità. E Forza Napoli. Sempre! Ilaria Puglia
Chi non ha scarpe non ha padroni. Proprio come te, Pocho, che mi hai fatta innamorare
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