Napoli, anno 2341. A scuola la professoressa assegna la seguente ricerca: approfondisci e spiega con dovizia di particolari la nascita e l’evolversi del lavezzismo. Ovviamente il discolo di turno già a scuola si collega col cervellone della Nasa e una volta a casa utilizza il teletrasporto (di cui ha rubato la password) per catapultarsi nei primi anni del Duemila. Torna coi capelli un po’ arruffati ma molto molto sorridente. “Ah ah ah… che risate, dove oggi c’è lo stato maggiore degli alieni c’era una sorta di astronave primitiva dove giocavano con una palla, sudavano, e Lavezzi era uno dei giocatori. La sua particolarità era il procedere a zig zag senza però mai interessarsi all’obiettivo del gioco, cioè far andare la palla nella porta avversaria. Ai napoletani del Duemila lui piaceva molto, ne erano follemente innamorati. A loro non interessava vincere, a loro piaceva molto più la ola provocata dalle corse di questo giocatore e si esaltavano. Dedicavano a lui canzoni, per lui ripristinarono un motivetto creato all’epoca di Maradona, considerato il più forte calciatore di sempre di questo sport. E poco importava se senza di lui la squadra giocava meglio e vinceva. Per loro Lavezzi era intoccabile, non volevano sentire ragioni”.
Il lavezzismo fu un fenomeno strano di questa città. Napoli, pur essendo abitata da tanti lavoratori onesti, è invece sempre stata percepita come il luogo dell’approssimazione e degli scansafatiche. In realtà non è così. Ma Lavezzi, soprannominato il Pocho, con l’acca, si identificava perfettamente con l’anima percepita della città: colui il quale in fondo non ha una propria specializzazione, in concreto non sa fare granché, ma dà l’idea di saper fare tutto, di poter risolvere ogni problema, di poter guarire ogni male. Non tanto una sorta di calciatore taumaturgo, quanto l’arte di arrangiarsi elevata a potenza, personificazione della storica dannazione dei napoletani. E il popolo si immedesimava a tal punto con questo calciatore da considerarlo un intoccabile. Perdonandogli tutto: le battute sui napoletani che non lavoravano, gli insulti della fidanzata arrabbiata per aver subito una rapina, le ammonizioni cercate per poter allungare le vacanze natalizie. Si badi bene, però, non si trattò di un fenomeno esclusivamente popolare. Fior di intellettuali si innamorarono di questa nuvola di vacuità che ai loro occhi fu l’insostituibile trascinatore. Persino più di un certo Cavani che segnava sempre ma veniva considerato pressoché nullo senza i passaggi di Lavezzi.
Volendo fare un paragone con un modo di dire in voga verso la fine del Novecento, Lavezzi fu il cosiddetto quadro di lontananza. Si diceva così quando da lontano si vedeva arrivare una donna appariscente, in genere bionda, che lasciava presagire chissà quali bellezze che poi, man mano che la signora si avvicinava, svanivano. Ecco, Lavezzi fu così. Ogni anno prometteva sfracelli, ogni era quello giusto e poi, giunto al dunque, continuava con quelle sue strane piroette trascurando puntualmente lo scopo del gioco.
Ma questo poco importava ai napoletani. Addirittura, una stagione, accadde che Ezequiel – questo il suo nome di battesimo – si infortunò e fu costretto a saltare due gare per infortunio. E il Napoli ovviamente senza di lui diede spettacolo: sei gol nella prima partita, tre nella seconda. Ma i tifosi piansero disperati. Non riuscirono a credere ai loro occhi, denunciarono l’arbitraggio e chiesero la ripetizione delle partite. Non era possibile che il Napoli vincesse senza Lavezzi. E in ogni caso a loro interessava poco. Per i tifosi il Napoli era Lavezzi: una fede, un dogma. Indiscutibile.
Ancora oggi il termine lavezzismo viene utilizzato quando si indica una persona inconcludente che però gode di una fama palesemente ingiustificata nell’ambito di una collettività.
Massimiliano Gallo