L’omaggio all’amico laziale di Testaccio e il dolore per quei cori al minuto di silenzio, un comportamento che ci allontana sempre più dal calcio
La maledetta domenica
Giorgio Chinaglia se n’è andato di domenica. Una maledetta domenica, quella che si è portata via anche Antonio Ghirelli. Io ho un debole per le storie di sport, ho un debole per le storie maledette, e ho un debole per i cattivi. Che poi, per dirla alla Fossati, così cattivi non sono mai.Mentre, nove giorni fa, aspettavo l’esecuzione dello Juventus Stadium, ricevetti l’sms di Stefano Ciavatta: voleva scrivere su Chinaglia, perché di Chinaglia gli aveva sempre parlato suo padre. Perché Chinaglia per i laziali è stato tutto, è stato colui il quale li ha trasformati da squadretta che faceva la spola tra B e A a campioni d’Italia. Noi possiamo capire solo in parte perché noi non possiamo capire che cos’è Roma e non possiamo capire che cosa sia l’autoghettizzazione dei laziali.
In quei giorni ho letto avidamente tutto di Giorgio Chinaglia, e sì che ormai non sono più un lettore vorace come un tempo. Perché io di quella Lazio ricordo poco, quasi niente. Forse la prima cosa che ricordo fu il radiogiornale del mattino che annunciò l’assurda morte di Re Cecconi. Ma ogni qual volta ho trovato un articolo o un filmato di quella squadra di pistoleri mi sono sempre fermato a gustarmelo.
«Per noi, è stato come per voi Maradona»
Poi, venerdì mattina, ho preso coraggio e sono andato dal fioraio. Ho comprato fiori bianchi e sono andato da Sandro, alias Agustarello, laziale comunista di Testaccio, il re della cucina. Sono entrato e ho chiesto scusa alla moglie, la poetessa Antonella: «Perdonami, ma questi fiori non sono per te». E li ho porti al consorte: «Sono per Chinaglia». Lui, il gigante buono, si è sciolto, mi ha abbracciato, non riusciva a parlare. Mi ha solo detto: «Domani sera ci sei?». Ho fatto di no con la testa, avrei voluto dirgli che non mi va più di stare relegato in un settore e dover essere obbligato a guardare gli avversari come nemici. Mi ha raccontato che invece lui aveva comprato il biglietto, curva Nord, per sé e sua figlia Sofia. «Senza nulla togliere al Napoli, ma andiamo per Chinaglia. Vieni, Sofia sta preparando lo striscione, ti facciamo vedere».
Stavano preparando lo striscione. Mi ha detto una cosa che per tanti potrà apparire blasfema, ma per me no: «Vedi, per noi Chinaglia è stato come per voi Maradona. Non parlo tecnicamente, ovviamente, però per noi ha rappresentato quello, il passaggio alla maturità». E io sarei voluto stare lì ore a parlare di Long John. Ci siamo limitati a poche chiacchiere, ma una promessa gliel’ho strappata: una serata senza limiti di tempo a parlare di Giorgione.
Sì, lo so, so dei coinvolgimenti giudiziari di Chinaglia, ma per me il calcio, il terreno di gioco è un campo neutro. Sabato sera ho saputo dei fischi, o quel che è stato, alla radio. Ero fuori, non ho scritto nulla dopo aver visto Mazzarri in tv nel post-partita. Mi ha ricordato tutto Ciavatta col pezzo che abbiamo pubblicato. Mi ha colpito il suo articolo e il commento di Maurelli che allo stadio non ci andava da tempo. Così come le parole amare di Ilaria.
Da tempo penso che in tanti ci ostiniamo a seguire questo sport pensando che ancora ci appartenga. Mentre sappiamo che è altro da noi. La scorsa settimana ho letto su Facebook uno status di Fabrizio Cappella su Barcellona-Milan: «Mio padre, milanese, interista dalla nascita, che esulta al gol di Nocerino. Ecco, a me lo sport lo hanno insegnato così». Una frase che qui sopra andrebbe messa in calce. Un modo di intendere questa passione, e temo anche la vita, che, ahimè, oggi sento così lontano. Domani c’è l’Atalanta, ma io parlerei ancora per ore di Giorgio Chinaglia. Mi ricorda la mia infanzia, le mie corse dietro un pallone o quelle scale percorse con l’ansia prima di rimanere senza fiato davanti al prato del San Paolo. Ha ragione Maurelli, mi sa, ci stiamo solo facendo un po’ più vecchi.