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Il tifoso e il suo idolo non potranno mai comunicare. L’ho scoperto un giorno, grazie ad Alberto Orlando

Doveva averlo scritto il giornale. Niente internet nel 1966. O forse un passaparola, chissà, però io non facevo parte di nessun gruppo di tifosi e i miei amici si dividevano fra interisti e juventini. Venivamo dai primi sessanta, un altro periodo di avvilimento, stadio devastato e serie B. In ogni caso ero lì, davanti ai cancelli della curva A.Doveva essere un settembre, campionato già cominciato ma lui era arrivato un po’ dopo. Allora il Napoli si allenava al san Paolo. Era pomeriggio e c’era in programma il primo allenamento di Alberto Orlando (qui la sua voce wikipedia http://it.wikipedia.org/wiki/Alberto_Orlando)

No, non ve lo ricordate. Non ha lasciato segni nella storia del Napoli, anche se l’anno dopo non andò malissimo, ma erano 46 anni fa, per la miseria, e fu una delle tante stagioni dove il Napoli segnò tanti gol nel nulla, quelle nostre marce piene di miraggi e avare di acqua. Però quel giorno ho capito che il tifo di pallone è una condanna.


Non eravamo molti, forse una cinquantina e c’era un grassoccio carabiniere di mezza età a tenerci a bada. ci diceva che era inutile aspettare perché tanto l’allenamento era a porte chiuse “e poi che vi interessa? Tanto fanno la ginnastica” – la lingua dei tempi andati.


Noi lo chiamavamo maresciallo, lui si “papariava” e noi insistevamo, pregavamo pure. A un certo punto se ne andò dicendo: vado a vedere che cosa si può fare. Basta farla sentire promossa, la gente, senza promuoverla davvero, per farle fare tutto quello che vuoi. Fatto sta che a fine allenamento un cancello lo aprirono e noi corremmo tutti dentro, c’era questo gruppo di ragazzini, e sarà perché all’epoca facevo un po’ di corsa e campionati studenteschi al Virgiliano, o forse solo che avevo 15 anni, fatto sta che arrivai primo davanti alla barriera che dava sul fossato e quindi sul campo. Orlando ci vide, era sudato fradicio, si avvicinò sorridendo e solo quando fu vicino mi resi conto che potevamo sentirci, Potevamo dirci delle cose. Sì, ma che cosa?


Lui mi disse “dimmi”. Gli altri urlavano, lui dava delle mani, e io mi sentii piccolissimo. La gola secca, il cervello in tilt, qualsiasi possibilità di trovare un pensiero era non alle viste. Le porte giuste si aprono per pochi secondi, perciò mi limitai a dire: fai venti gol. E lui disse, sì, certo.


Fine qui dell’episodio, ma se sono passati 46 anni e ancora ci penso non è solo perché tutte le volte che mi sono sentito un po’ imbranato nella vita e incapace di chiedere la mia fetta di torta ho ripensato all’incapacità di quel giorno. Non è solo quello. Oggi mi sono convinto che in quell’incontro ci fu qualcosa di più di un poco interessante aneddoto di nevrosi personale. Fu un’esperienza che è comune a chiunque sia mai andato in uno stadio con una sciarpa e il cuore a mille. Quel giorno ho scoperto che il tifoso vive in un mondo che non c’è. Lui stesso, come persona, non esiste.


Il tifoso può solo urlare se stesso al proprio idolo, fai venti gol, oppure andate a lavorare oppure Diegoo Diegoo. Ma il rapporto diretto, tra due persone alla pari, non c’è e soprattutto non si dà. Il tifoso grida al nulla. E se lo incontri è come se tu incontrassi una divinità. Adesso non si irriti chi ha una fede. Parlo di un rapporto pagano con la divinità, esperienza che chi è napoletano conosce molto bene: cosa puoi chiedere alla divinità se non di manifestare ancora di più se stessa, facendo in misura maggiore ciò per cui essa è divinità? Fammi un miracolo, fammi vincere al lotto, fammi guarire, liberami dalla morte. Oppure “amami”, a volte anche questo succede, quando la divinità è un’altra persona. E fai venti gol, se è un calciatore. Però tu resti un inginocchiato e lui/lei resta una divinità.


Perciò non credo al mio mestiere di giornalista, alle interviste, ai fili diretti, e nemmeno ai twitter e ai forum. La divinità non parla a noi se non con i suoi segni. E noi non possiamo parlarle, perché il tifoso *vive in un esilio* che è la terra di nessuno del suo perenne desiderio, che proprio perché perenne è come se fosse il purgatorio di chi non può mai essere soddisfatto. Il tifoso soffre di sete eterna.


Un’eccezione c’è stata, per noi e per il resto del mondo. Qualcuno è riuscito a parlare al nostro cuore e a sentire ciò che gli dicevamo, con lui abbiamo parlato come se avessimo avuto dieci internet. Lui ci ha sciolto dalla catena dell’attesa senza fine e ci ha detto che potevamo essere felici: la felicità per il tifoso è sempre per breve tempo, anche se tifa Barcellona, la prossima partita non è mai felice, prima di averla vinta. Con lui là la felicità fu. Non a caso noi, lui, lo abbiamo considerato come un dio e non a caso gli abbiamo dedicato un te diegum, e per questo motivo lui non dovrà mai tornare. Ma questa è un’altra storia.
Vittorio Zambardino

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