L’aspetto più triste della vicenda è che tutto è stato già scritto. Ciascuno l’ha fatto a modo suo, seguendo le proprie convinzioni. Ma i fili sono lì e riannodarli costano un bel po’ di fatica. Francamente per me, che quest’anno ho recitato il ruolo del cieco sostenitore, è stato difficile arrendersi alla realtà. Che però è lì impietosa sotto i nostri sguardi. Il Napoli si è dissolto, come ha scritto Carratelli. Non c’è più. E non esiste più perché, come ha scritto Zambardino, non c’è una società, manca un’impalcatura aziendale. È un’impresa a conduzione familiare, dove il padrone fa tutto. E fino a un certo livello va anche bene. Poi, quando il mare diventa tempesta, la piccola barchetta non regge più e si disintegra.
Non regge il Napoli. Proprio non ce la fa. Qui non ne faccio una questione tecnica. Poi ne possiamo parlare. I lavezziani sono riapparsi più pieni di sé che mai. Eppure anche col Pocho il Napoli, arrivato al dunque, veniva meno. Quindi il problema è altrove, probabilmente nel manico. O, per avvicinarci alla verità, negli obiettivi. Ce lo siamo detti mille volte, questa società non ha l’obiettivo di vincere. Ha l’obiettivo di guadagnare. Nulla di sbagliato, per carità. Ma i due proponimenti potrebbero anche andare a braccetto. Non è detto che l’uno debba rivelarsi inconciliabile con l’altro.
E invece sono ormai tre anni che assistiamo allo stesso canovaccio. Coperta corta, squadra che fa i miracoli, miracoli intestati quasi tutti all’allenatore e allenatore che al momento decisivo non regge la tensione. Ma proprio non ce la fa. Va per la sua strada, segue percorsi logici estranei ai più. Un tempo erano le astruse tabelle che riportavano il rapporto tra monte ingaggi e posizione in classifica; oggi è un più semplice, ma non meno lunare, paragone con la classifica dello scorso anno. Anno in cui, vale la pena ricordarlo, abbandonammo la corsa scudetto alla settima giornata.
Voi dite, in tanti lo dite, che Pandev è stata una delusione. E io sono d’accordo. Ma magari il punto fosse il macedone; il punto è che mai nessuno ci ha creduto, tranne i tifosi. Nel girone d’andata siamo stati i più temuti, eppure siamo andati a Torino a guardarci la partita per poi perdere. Il presidente ha tenuto un profilo bassissimo, salvo uscirsene con dichiarazioni senza senso su un futuro senza Cavani e senza Mazzarri, o fare il Masaniello in occasione della sentenza d’appello per Grava e Cannavaro. Il tecnico ha cominciato sin da subito a parlare di anno sabbatico senza avvertire il senso del ridicolo di un paragone con Guardiola.
Insomma, diciamoci la verità, è tutto un po’ farsesco. Ora, come detto già altre volte, ciascuno può trarre il bilancio che preferisce. In fin dei conti abbiamo acquistato uno spessore che non avevamo da tempo. Siamo da qualche anno ai piani alti. Certo, non vinceremo mai. Ma non mi sembra, la nostra, una città che possa guardare avanti. E quindi ci si accontenta. Del resto, due anni fa festeggiammo il terzo posto conquistato con una pastetta.
È triste, lo so. Soprattutto perché è realistico. Triste per noi, però. Il presidente è soddisfatto. Ma lui gioca un’altra partita. Quella dei bilanci. E l’ha vinta ancora una volta. Facciamocene una ragione. Vivremo tutti più sereni.
Massimiliano Gallo
La tristezza dei tifosi, la gioia del presidente
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