Ora che “Mazzarri se n’è ghiuto e soli ci ha lasciati”, come Palmiro Togliatti disse in modo sprezzante delle dimissioni dello scrittore Elio Vittorini dal Partito comunista italiano, una considerazione sulla qualità della nostra informazione diventa davvero doverosa. Non sull’avvenire della squadra, no: sono pessimista come il maestro Carratelli e forse come Walter Mazzarri. Ma non allunghiamo il brodo: l’informazione.
Partiamo da una domanda: ma noi di tutta la vicenda Mazzarri che abbiamo saputo? Non da lui. Lui ha diritto all’opacità e alla sua versione dei fatti. Lo stesso diritto hanno tutti gli altri protagonisti della vicenda. Se tutti fossero “trasparenti”, non so se il mondo sarebbe migliore, ma non avremmo bisogno più di cronisti, ma di interpreti, analisti, editorialisti.
Invece abbiamo interpreti, analisti, editorialisti ma non abbiamo le notizie. Le cronache sono reticenti, vaghe, spesso depistate. Molti anni fa, quando facevo lo sport, un collega assai bravo, oggi alla Gazzetta, mi rimproverò di “scrivere tutto” e di “rovinare i rapporti” con le fonti perché ero uno che arrivava una volta, per un solo servizio, e poi me ne andavo. “Noi invece si vive qui”. Risposi: “Ma siamo qui per raccontare le cose”. E lui mi disse: “Ma se le racconti tutta, poi non la racconterai più, perché non ti diranno più nulla”.
Sulle prime fui in netto dissenso. E lo sono ancora, ma poi capii cosa voleva dire per davvero il mio amico. Con l’andar del tempo si forma un “patto di convivenza” fra te e la fonte. E’ questo patto, che prevede un grado assai modesto di rivelazione delle cose, che regge il rapporto. Accade nello sport e in molte altre situazioni del nostro giornalismo, accade ai cronisti “embedded” in guerra e a quelli con le squadre e i loro interlocutori – giocatori, allenatori, società. Secondo la regola “Io dico tutto quello che posso fino al punto in cui tu non ti incazzi” .
Il risultato di questa situazione è che per mesi può andare avanti una telenovela, più che evidente dalle dichiarazioni e dagli atteggiamenti, senza che nessun cronista si incuriosisca e indaghi seriamente sulla salute di Mazzarri, sui rapporti con la società, su “quello che c’è dietro”, sui suoi rapporti con altre società (eventuali).
Si vive in una comoda routine fatta di conferenze stampa, telefonate ai colleghi, pezzi costruiti in venti minuti con l’ufficio stampa. Si arriva a forme di sovrapposizione tra esperienza professionale “con” la società da giornalista e “dentro” la società da giornalisti-addetti stampa. Ma purtroppo sono due mestieri molto diversi. Perché il risultato nel caso del giornalismo dovrebbe essere l’informazione ai lettori. Nel secondo è l’interesse del club. Poli opposti della faccenda (sto parlando di un problema non di persone, e il mio giudizio è solo mio, personale).
La stessa “lunghezza” di esperienza di alcuni colleghi con la squadra è un elemento negativo. Se segui per dieci anni la Roma, hai troppi amici, hai preso troppi caffè, hai condiviso magari anche qualche momento drammatico di vita e il club ti ha aiutato quella volta che tuo figlio ecc ecc. E non va bene (per non parlare dei biglietti di ingresso allo stadio…) . Ripeto, non parlo di casi singoli e non della sola Napoli: succede a Milano e a Firenze, a Napoli e a Torino. Ma qualche caso, qualche eccezione c’è. Si può essere forti e non essere cacciati dal campo o dalle conferenze stampa: è la debolezza nella quale ti rèleghi che ti fa proclive al ricatto della società
Non c’è niente da fare? Ci sarebbe da fare i giornalisti. Oppure si potrebbe dire al gentile collega che ha fatto l’addetto stampa di occuparsi per un paio d’anni di traffico o di arte, stando attento a non diventare troppo amico del gallerista. Lo ripeto, questa è una malattia di cui l’intero giornalismo sta crepando, nei giornali grandi e piccoli. Altro che Napoli e il calcio Napoli. Ed ecco perché discutere le questioni del pallone senza conoscere nel merito le vicende non ha senso. La filosofia si può fare se hai un dato di realtà da cui partire. Infatti l’illuminismo cominciò smantellando le versioni ufficiali del sapere.
Vittorio Zambardino