Gennariello ha 39 anni, età matura, ed è ancora in mezzo a noi. Ha i suoi soliti occhi neri brillanti e le labbra grandi, porta i capelli corti sulla nuca ma il ciuffo alto. Conserva i fianchi stretti e le gambe solide, ed è ovviamente amante del gioco del pallone. Gennariello è lo scugnizzo che con queste tonalità Pasolini disegnò nel ’75, un ipotetico ragazzo napoletano a cui destinò un trattatello, successivamente raccolto nelle Lettere luterane. E’ in questo trattatello che Pasolini indugia sull’immagine e sul concetto di Napoli come “ultima metropoli plebea, ultimo grande villaggio”. In una parola sola: stereotipo. In un’altra: oleografia. Il mito dei napoletani simpatici, l’elogio dei napoletani che “sono rimasti gli stessi di tutta la storia”. Ma rimanendo gli stessi di tutta la storia, Pasolini non si accorgeva che i napoletani continuava a tenerli fuori dalla Storia.
Il dibattito su Benitez porta fin qua. Addirittura. Qui si arriva seguendo il filo delle parole con cui Oscar Nicolaus replicava all’articolo di Massimiliano Gallo intitolato “La rivoluzione antropologica di Benitez”, articolo seguito alla frase di Rafa: “Napoli deve smettere di considerarsi una città diversa”. Benitez predica, forse in maniera inconsapevole, un anti-gennariellesimo che in maniera esplicita e per via autonoma Napoli non sembra proprio saper partorire. Benitez ha il pregio di posare su questa città uno sguardo affettuoso e distaccato. Per questo giunge alla felice conclusione che per entrare nella storia, per cominciare a essere un posto dove non si vince ogni 25 anni (e capirete che non si parla solo di calcio), dobbiamo finirla di sentirci speciali. Uguali al resto del mondo che progredisce e che vince, devono essere obiettivi e strategie. “Non si cambia idea ogni settimana”, è l’altra frase chiave di Benitez. Nicolaus, acutamente, coglie la novità del metodo Benitez. Ma alla de-pasolinizzazione della visione di Napoli non intende partecipare. Almeno a me così pare. Scrive: “Vorreste, in nome di una modernità morente, soffocare lo spirito peculiare dei napoletani, li vorreste omogeneizzare, cambiare l’azzurro in grigio: siamo diversi ed orgogliosi di esserlo”. La diversità. Il punto non è essere diversi, quando la diversità si esercita e si declina in processi virtuosi che accompagnano una crescita. Il punto è sentirsi diversi, qui si insinua la condanna. Il punto è pretendere che il mondo riconosca in noi una diversità, che quasi sempre nei nostri pensieri coincide con la parola “superiorità”. Sentimentale, filosofica, antropologica. Questa idea di diversità fa male a Napoli, a noi, e mettiamoci pure la squadra. Pretende un trattamento riservato (“Meritiamo di più” oppure “Non ha capito che qua stiamo a Napoli…”) e offre un alibi ogni volta che un cambiamento non attecchisce (“Non lo vogliono capire che queste cose a Napoli non si possono fare…”). Non si tratta, come scrive Nicolaus di “sogni che ci facciano rincorrere imitazioni altrui”. Vincemmo, quando vincemmo, con la Grande Anomalia di Maradona, capitato evidentemente a Napoli per un incredibile incidente della storia. Ma vincemmo anche – e nei documenti dell’epoca ce n’è abbondante traccia ove mai la memoria abbia rimosso – vincemmo anche per una società che con Allodi aveva imboccato sentieri manageriali meno indigeni, vincemmo perché Ottavio Bianchi era il gelido che era, e nella presunta specialità di Napoli la sua diversità fu energia positiva.
La diversità di Benitez è invece osteggiata. Nella sua estraneità al “ciù-ciù” napoletano che tutto avvolge e reclama, Bianchi poteva usufruire di un credito di rapporti sinceri dovuto alla sua precedente esperienza da calciatore a Napoli. Nei giornali aveva un paio di voci amiche che nei momenti difficili (ci furono) seppero tenere sotto controllo l’accusa di allenatore poco adatto, “perché viene dal Como”. Benitez, che peraltro dal Como non viene, fronteggia le bocche di fuoco di chi non si capacita della sua estraneità a una certa Napoli: la città che esige l’omaggio a prescindere, il piccolo notabilato intellettuale che impone un caffè al bar con te, una sera al ristorante, una telefonata per scambiare un’opinione sulla formazione. E poi ci sono le sue resistenze a certe incrostazioni del sistema calcio che fanno girare pressioni e dvd affinché tu prenda in squadra Questo, Codesto e Quello. E perciò adesso si tratta di individuare, con la mente ghiacciata, qual è la strada che porta al cambiamento, al miglioramento. Nel calcio, a noi del Napolista pare che Benitez sia quella strada. Se è vero che vogliamo una città migliore, come giustamente sottolinea Nicolaus, allora per me non c’è dubbio che vogliamo una città diversa. Diversa innanzitutto da com’è. E dunque una città normale, perché tutto si può dire di Napoli tranne che normale sia. Migliore, diversa, normale. A volerli frullare, tutti questi aggettivi, ne verrebbe fuori uno, sebbene abusato e consumato pure questo. Nuova. Una Napoli nuova. A proposito di Pasolini, Erri De Luca spiegò ben dopo il ’75 che Napoli sfugge ai predicati assoluti, alle definizioni che vogliono ingabbiarla. Scrisse che chi prova a colpire al centro, manca il bersaglio. Aggiunse che capitò pure al Pasolini che scriveva: “Preferisco la povertà dei napoletani al benessere della repubblica italiana, preferisco l’ignoranza dei napoletani alle scuole della repubblica italiana, preferisco le scenette, sia pure un po’ naturalistiche, cui si può ancora assistere nei bassi napoletani, alle scenette della televisione della repubblica italiana”.
Ma ora le scenette naturalistiche dei bassi napoletani sono dentro la televisione della repubblica italiana. Siamo rappresentati così. Solo così. Noi siamo così. Su questa visione, su questi stereotipi e questa oleografia, giocò Massimo Troisi nei suoi film, e principalmente (stavolta da attore, non da regista) in “No, grazie il caffè mi rende nervoso”. Interpretava se stesso, un Troisi invitato al festival “Nuova Napoli” e minacciato da un maniaco, Funiculì funiculà, che questo cambiamento della città non lo voleva. Il maniaco si farà arrestare a dorso di un ciucciariello, sventolando la bandiera del Napoli e con la maglia numero 5 di Rudy Krol sulle spalle. Era il 1982. Trentadue anni dopo, stiamo ancora qua.
Il Ciuccio