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Il 3 maggio perdiamo / L’analista grafomane e il delirio da sconfittismo

Just because you’re paranoid doesn’t mean they aren’t after you”

È una “manila envelope”, una busta gialla di quelle americane che si chiudono con un nastrino rosso. Lui ci ha messo un piccolo sigillo in cera lacca, ma giusto una goccia per far vedere che nessuno ha aperto la busta, niente marchi nobiliari o disegnini, e sì che è di origine aristocratica. Riconosco la busta, riconosco la sua scrittura, riceverla è un abitudine. I sette anni passati insieme non me li dimentico. Ci vedevamo tre volte alla settimana in quel palazzo che guarda il mare dall’alto come una signora elegante guarderebbe un mendicante. Arrivavo sempre prima dell’orario di appuntamento e rimanevo a guardare il mare anch’io sporgendomi dal muretto del viale d’accesso, certe volte ho fatto tardi da lui perché mi incantavo. Da lì è una città tutta diversa da quella che vivevo io. Era colorata. La mia era polverosa, scrostata e ovviamente incasinata. Qualcuno ha detto che i napoletani si dividono fra quelli che hanno il mare e quelli che non ce l’hanno. Io non ce l’ho mai avuto. Lui sì. A lui bastava aprire la finestra per averlo. Lui era il mio analista. Ma dopo quei sette anni “istituzionali” si è poi creato un rapporto di lettere, di poche lettere ma di emozioni intense. Mai più di due, massimo tre ogni anno. E anche in tempo di internet eravamo rimasti alla carta. Lui dice che l’immediatezza del mezzo lo mette in imbarazzo, che crea una facilità di accesso che fra noi due non è bene che ci sia. Per potermi parlare ha bisogno della distanza. E va bene così, perché questo ci ha permesso di non perderci mai di vista. Di continuare a coltivare un sentimento, perché poi di questo si tratta, nelle uniche forme possibili. È perfino offensivo, per lui e per me, specificare che di fisico questo sentimento ha avuto, nei momenti di massima intimità, una stretta di mano. Anche un po’ frettolosa. Ma siamo in tempi di gente che scrive molto perché non sa leggere. E quindi, specifichiamo. Vedendo la busta mi sono allarmato. L’ultima sua lettera era recente. Per scrivermi un mese dopo doveva esserci qualcosa di nuovo, di urgente. E io mi allarmo sempre, se squilla il telefono e non vedo subito il nome di chi chiama, se arriva una mail con la bandierina rossa, se una lettera imprevista mi riempie la cassetta della posta. In fin dei conti lui non è più giovane, neanche io ma lui meno di me, e questo nostro tran tran va avanti da quarant’anni, e non si sa mai, hai visto mai. Ma appena apro capisco che è solo una lettera di pensieri come le altre. Lunga però. Dovrò riassumerla. Lui è un grafomane. Lo è sempre stato. Anche quando scrive i suoi libri, dei quali non capisco mai niente ma che mi ostino a leggere, centinaia di pagine che mi viene il mal di testa. Tanto generoso di parole adesso quanto in seduta taceva come un morto. Certe volte mi giravo dal lettino apposta per vedere se per caso non si era addormentato, o peggio. Altre volte erano i suoi borborigmi a dirmi che era vivo. Comincia da lontano “Ho letto i pezzi sul Napolista, quelli sulla finale con la Fiorentina. Come sai, non ho mai seguito il calcio e seguo il sito solo perché me l’hai segnalato tu e perché ci scrivi. Siete gente seria che confessa apertamente nevrosi al galoppo. Il discorso sul tifo calcistico lo abbiamo fatto, mi pare: è una regressione a stadi assai primitivi dell’esperienza umana, non oltre i sei-sette anni, una liberazione di gioie assolute e rabbie radicali che sono ormai fuori dalla qualità media dell’esperienza umana. Siete, materialmente anche se non ancora giuridicamente, contrabbandieri di emozioni bandite dall’individuo sano, clandestini dell’emozione non mediata. Ecco perché “ragionare” di tifo come provate a fare su quel sito o addirittura a farne cultura mi pare inutile. Ma qui vengo a te. Sei tu che mi preoccupi, perché ti stai dando a quella forma di delirio che si chiama superstizione.” Che si preoccupa per me me lo ha scritto spesso, quindi anche voi che leggete non allarmatevi. Ad ogni mia scelta esistenziale un po’ si sconvolge. Dice che gli spariglio le teorie, che gli scasso le interpretazioni. Anche sul tifo mente. Il 10 maggio ’87, mi confessò, aveva pianto. E in un’altra lettera disse che avrebbe dato chissà cosa per analizzare Diego Maradona. Il quale ovviamente nel suo studio non ci ha mai messo piede e ho sempre pensato che, se si fossero incontrati, sarebbe stato Lui a finire in una vasca da idromassaggio con Diego. Ma ecco come continua: “Non ti sei nemmeno accorto che il tuo racconto gira attorno alla stessa idea ossessivamente ripetuta più volte in modi diversi. L’idea del complotto. Quante volte ne abbiamo parlato, Vittorio? Quante volte ho dovuto spiegarti che i complotti potrebbero, non sempre, esistere ma che ciò che fa sì che il complotto diventi realtà è solo e soltanto l’immaginazione di chi se ne ritiene vittima? Quante volte ho dovuto spiegarti che ripetere il proprio terrore significa realizzarlo? Il complotto è il suo racconto” “Naturalmente questo non ha niente a che fare con un omicidio, con il disegno di uno stalker o con una trama politica ben congegnata, per dire, quella contro Giulio Cesare. In quel caso la vittima non poteva evitare niente. Ma se parliamo di partite di calcio e di poteri del calcio, non vedi che sei nelle nebbie dell’incertezza, del non detto, della evanescenza del potere? E qui o riesci a pensare in senso controintuitivo o sei, e siete, tutti chiusi in una banalità perdente. Nel senso di una banalità destinata alla sconfitta e quindi alla realizzazione del complotto eventuale”. (omissis: si è perso in un lungo ragionamento teorico) “…ma se arriviamo al complotto, allora devo ricordarti che fosti tu a citarmi la frase attribuita, in modo dubbio, a Kurt Cobain: “Just because you’re paranoid doesn’t mean they aren’t after you”. Che lo so, è ambigua anche lei, ma si può tradurre: ‘il fatto che tu sia paranoico non ti evita il complotto, non evita che gli altri ti vogliano male e provino a fartelo’. E questo è il punto!” “Lo sconfittismo napoletano sarà pure, come dite e ripetete in quel sito di pazzi, dovuto al fatto che Napoli non conta più niente nei media e nel potere, e questo lo noto anch’io nell’Associazione e con gli editori, ormai pare che dobbiamo fare i salti mortali per farci pubblicare qualcosa, come se non avessimo alla spalle una vita di lavoro. Ma seguimi un attimo: facciamo l’ipotesi che sia tutto vero, che il tuo delirio SIA la realtà” “Secondo te c’è davvero qualcuno che telefona al capo degli arbitri, qualcun altro che, magari da governante o magari da industriale, dice: la Fiorentina deve vincere? Se lo pensi o lo pensate siete davvero da curare. Il potere, Vittorio, è MUTO. Il potere procede per intuizioni e se proprio parla lo fa in modo indiretto e per enigmi. Il potente non dà ordini. Li fa eseguire. Se vi fissate sulla denuncia di un complotto “in atto”, quelli che dovrebbero capire chi, come e dove colpire intepreteranno non i segnali del potere, ma i vostri segnali. Sarete voi a dire: sparate qua, hanno deciso di ucciderci. Sarà il vostro chiasso piagnucoloso a farvi localizzare. Sarà quello l’odore che chiama il predatore. E non mancherà chi eseguirà la sentenza”. “”Che il potere sia contro il Napoli e che stia mandando i suoi segnali è possibile e forse probabile, del resto i pazzi vedono spesso la realtà. Ma il potere è software, non hardware. Se vuoi evitare che accada quello che temi, comincia a dire le cose che vedi e se non le vedi, taci. Su una cosa sola avete ragione voi del Napolista, quando dite che il Napoli non si preoccupa di “massaggiare” i media ogni giorno. Perché il potere è massaggio, non messaggio. Il potere è presenza, contatto, non assenza. Il potere è sostegno quando serve, anche su una piccola cosa magari personale, il potere è consapevolezza dell’altro che tutto ciò che ti fa bene si può fare ma anche che ogni vendetta può essere presa. Il potere è capitale sociale più deterrenza. Solo De Laurentiis pensa che il potere funzioni come nel “il Trono di Spade”, forse per deformazione professionale. Il potere non minaccia. Accarezza”. “E se poi dovesse succedere quello che temi, non continuare a conservare dentro, come schegge marcite e infette, i dubbi. Potreste anche perdere sul campo. Sai, ho cercato di fartelo capire nei sette anni del nostro lavoro insieme, la realtà e la responsabilità dei singoli esistono e producono altra realtà” “Stammi bene, per Pasqua vado nella mia isola preferita, come dove sai non ho cassetta della posta, oltre a non avere la corrente elettrica. Non rispondermi. Pensa a quello che ti ho detto” “Sappi che ti porto nel cuore, tuo ….” +++ “Il Tre Maggio Perdiamo” / 5 – Continua Vittorio Zambardino Le puntate precedenti +++ Avvertenza Le persone, i luoghi, le circostanze riferite in questo racconto possono apparire reali e apparentemente possono aderire a figure e situazioni esistenti. Inutile specificare, ma lo facciamo per i letterali che sono una brutta razza, che si tratta di un racconto immaginario, che nulla di quanto detto è mai esistito o accaduto nei modi qui riferiti e che ciò che appare come reale è spostato, mascherato, riutilizzato come mattoni vecchi in una costruzione nuova. Inutile quindi provare a riempire gli incavi bianchi con tessere di puzzle di vostra creazione, come potrebbero essere il nome di una persona o di un luogo: non aderirebbero allo spazio creato dal racconto. Nemmeno spingendocele forte.

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