
Mi ha fatto correre per l’ennesima volta in ospedale. Stavolta frattura del femore della gamba destra, la stessa gamba che Aredio Gimona, un istriano che giocava difensore nel Palermo, gli spezzò quando il petisso era appena giunto in Italia e giocava nella Roma, la stessa gamba del primo by-pass per salvarlo dall’intasamento e dalla fragilità delle vene nelle quali scorreva più fumo che sangue avendo fumato più di trecentomila sigarette nella sua vita di giocatore, allenatore, fumatore accanito e ineguagliabile narratore di calcio.
A 89 anni, Bruno Pesaola ha superato l’ennesima prova. Intervento riuscito al “Pascale”. Da sette e più anni, il petisso va di ospedale in ospedale. Gliene capita sempre una. Lo chiamo e lui mi dice: “Sono in un albergo a cinque stelle, vieni a trovarmi”. L’albergo a cinque stelle è un ospedale dove lo ricoverano sempre di urgenza. L’ho inseguito al Nuovo e al Vecchio Policlinico, al Fatebenefratelli, al San Paolo.
Ha più dei sette spiriti dei gatti e torna a galla sempre, il petisso dei nostri cuori. Due volte ha visto la porta nera, come lui chiama la soglia della morte. “Me l’hanno sempre chiusa in faccia e sono tornato, dovete sopportarmi a vita”. E non l’hanno piegato mille siringhe, trasfusioni, ambulanze, barelle, tac, esami del sangue, pasticche, sciroppi, dolori.
Resisterà ancora a tutto perché ci siamo ripromessi di festeggiare i suoi 90 anni l’anno prossimo, il 28 di luglio, e faremo le cose in grande nella sua casa di via Manzoni che affaccia sullo stadio di Fuorigrotta. Ci saremo tutti i suoi alunni della luna, quelli di noi che hanno fatto le notti di whisky e sigarette per sentirlo raccontare la favola del calcio come solo lui sa raccontarla.
L’altro giorno sembrava più morto che vivo. Il giorno dopo, al “Pascale”, aveva recuperato energie e ironia e voleva sapere tutto del Napoli perché non aveva visto la partita di Udine. Sgranando gli occhi, facendo tutte le sue mosse buffe, provocate anche dal dolore alla gamba prima di essere operato, con un paio di aghi in un braccio e una cannula di ossigeno sulla bocca per respirare meglio, mi interrogava con gli occhi, col cuore, con la cantilena castigliana allontanando la cannula. “E dimmi, il Napoli come ha giocato? Ma non dire le solite cazzate”.
Incredibile petisso, allegro, pimpante nonostante tutte queste disavventure con i medici e gli ospedali, l’eterno “napoletano nato per sbaglio a Buenos Aires”, come si definisce, sessanta e più anni vissuti a Napoli, intervallati da brevi esili per ritornare sempre tra noi perché è cresciuto a fughe e cross nello stadio della collina, al Vomero. Due pasticche di simpamina per correre avanti e indietro. Portava avanti la palla, polmoni grandi e due gambe robuste, piccolo e tosto, per fornire di cross Amadei, Jeppson e Vinicio. Aveva i capelli neri con tanta brillantina e il naso a punta, e allargava la bocca “a salvadanaio” dispensando risate argentine.
Tra Milano e Napoli aveva scelto Napoli. Così volle Ornella, la splendida ragazza sanremese che aveva appena sposato. Lei c’era stata tante volte perché aveva un fratello che lavorava alla Siae di Pozzuoli. Andiamo a Napoli, lei disse. E un giorno d’estate del 1952 il petisso arrivò a Napoli, rifiutando il Milan, e venne nel Napoli del Comandante e di Eraldo Monzeglio, subito dopo il breve viaggio di nozze a Positano. La prima volta ci incontrammo all’Hotel Parker’s del corso Vittorio Emanuele dove si radunò il Napoli di uno dei più famosi tridenti della sua storia, Giancarlo Vitali e Pesaola alle ali, al centro Hasse Jeppson.
Prese casa all’Arenella, ultimo piano, il panorama dell’intera città sotto gli occhi e l’amore grande per Ornella. Cominciarono al “Ragno d’oro”, in Piazza Medaglie d’Oro al Vomero, le notti interminabili in cui raccontava il calcio e gli volemmo subito bene perché il suo cuore era buono e generoso, i suoi occhi brillavano di innocente furbizia e la cantilena castigliana di “napoletano nato a Buenos Aires” ci affascinava sempre di più.
E’ stato un lungo racconto, il suo dribbling irresistibile, i gol, le vittorie e le sconfitte, la fortuna, il successo, il dolore, la lealtà, i tradimenti, la partita, e il prima e il dopo, un’avventura intensa. E il racconto continua perché ha sempre da dire, da raccontare, da svelare aneddoti inediti. “E alora”, comincia addolcendo l’avverbio. Sgrana gli occhi, fa pfff schioccando il pollice sotto il labbro superiore, e la voce torna squillante, i ricordi perentori.
Abbiamo vissuto una vita insieme, nel fumo delle sigarette, col sapore buono del whisky, resistendo al sonno mentre Bruno raccontava e non si fermavi mai. “Sono un grande intimo della notte – diceva. – La notte è bella e porta le idee. Le persone più interessanti escono dalla notte”. Bruno era il menestrello notturno del football e noi i suoi alunni devoti.
E così è passata non una vita, ma due, tre, saltando da una domenica all’altra, da una partita all’altra, girando l’Italia e l’Europa dietro la squadra del nostro cuore alla quale Bruno Pesaola dava tutta la sua passione, l’impegno generoso e la fedeltà di amante irriducibile della maglia azzurra. Quando arrivarono Sivori e Altafini per le stagioni più allegre, lo stadio era sempre pieno. La panchina del petisso era un deposito di cicche e il cappotto di cammello divenne un leggendario portafortuna. E poi vennero le stagioni delle salvezze miracolose, ma niente bastava dei suoi prodigi perché rimanesse sempre tra noi, caro petisso, costretto dalle vicende del calcio a emigrare a Firenze, vincendo uno scudetto che non valeva le sue imprese azzurre, a Bologna, persino in Grecia, sempre andando e tornando, legato a questa città e alla squadra, la sua gioia e il tuo tormento.
Era il tempo di paròn Rocco e del mago Helenio, il tempo del calcio romantico, il “catenaccio” e le mille furbate tattiche, e non c’erano i soldi e la tempesta di microfoni, telecamere e taccuini di oggi, ci conoscevamo tutti, e nascevano simpatie, amicizie e affetti veri. Tanto è rimasto di quel tempo che gli almanacchi non possono dire.
Di quel tempo è rimasto lui, il petisso. E’ rimasta questa nostra amicizia, un dono del calcio di una volta. Ci siamo divertiti quando i terzini si chiamavano terzini e la partita non era ancora una questione algebrica e la tattica non era una tavola pitagorica. Abbiamo vissuto una bella vita, Bruno dei nostri cuori. E continuiamo a viverla, e lui ce la rende continuamente allegra, nonostante ci sia sempre un’ambulanza che arriva e vorrebbe portarcelo via.
L’altro giorno è entrato in camera operatoria e aveva ancora da chiedermi mentre si allontanava in barella: “Mi dirai tutto del Napoli col Palermo, ma non raccontarmi le solite cazzate. Perché io torno, sai. Mi cambiano la gamba e torno”.
Mimmo Carratelli