La giunta di Roma ha approvato la delibera per la realizzazione dello stadio della Roma, a Tor di Valle. Non sono mancate le tensioni, soprattutto per la questione della proprietà e le eventuali penali da pagare in caso di vendita a terzi (cioè non alla As Roma) dell’impianto. Ma alla fine la delibera è stata approvata, anche rapidamente altrimenti l’investimento sarebbe andato in fumo. Un progetto da un miliardo e duecentomila euro. Ossia, un fiume di denaro.
Le condizioni poste dall’amministrazione Marino sono una serie di lavori pubblici per la città, tra cui la realizzazione della linea del metrò fino a Tor di Valle (50 milioni). Ma ci sono anche la realizzazione dello svincolo sulla Roma-Fiumicino (5); del ponte sul Tevere della stazione Muratella (7,5); l’adeguamento della Via del Mare (38,6), la creazione del parco sul fiume, un sistema completo di videosorveglianza e la destinazione per sempre a “stadio di calcio”.
Il progetto ora dovrà ottenere gli ok del consiglio comunale e della Regione. I lavori dovrebbero partire nel 2015. Lo stadio potrebbe essere pronto per il 2017.
Un impianto da 52.550 posti estendibili a 60mila. Progettato dall’architetto Dan Mesi, sarà ispirato al Colosseo. Costerà 300 milioni. Le opere pubbliche 900. Una proporzione che ha rischiato di far saltare l’affare.
Gli americani, ovviamente, non riuscivano a capacitarsi di dover parlare non solo con presidente della Regione e sindaco, ma anche con le diverse anime del Pd. «Abbiamo costruito stadi in tutto il mondo, in nessun luogo abbiamo ricevuto simili richieste». Ma alla fine la delibera è stata approvata.
Roma compie uno straordinario passo in avanti, figlio della collaborazione tra pubblico e privati. L’approvazione della delibera rende perfettamente l’idea di una città in movimento come sono tutti luoghi vivi, tutte le città europee che immaginano e costruiscono il loro futuro. È un fiume di soldi paragonabile a quello stanziato per le Olimpiadi del 1960.
Al di là delle pastoie burocratiche e dei mille paletti posti – condizione uguale in tutta Italia – sarebbe il caso che qualcuno a Napoli si svegliasse, si ridestasse dal torpore. Nell’anno 2014, la città si affanna ancora a discutere di Bagnoli, e qualcuno prova persino – in maniera grottesca – ad addossare le responsabilità al pur inefficace sindaco de Magistris. Sembra uno scherzo se non fosse tragicamente serio.
A Napoli hanno messo sotto processo Aurelio De Laurentiis che in dieci anni (domani, auguri) ha preso una società dal nulla e l’ha condotta ai vertici del calcio italiano, con un bilancio in salute. Il che – in una società capitalistica – è un merito. A Napoli, ripetiamo, accusiamo De Laurentiis e non ci accorgiamo che a duecento chilometri da noi parlano un’altra lingua, pensano a un’altra velocità.
La questione stadio, da noi, farà la stessa fine di Bagnoli. Eppure un tentativo c’era stato, con le prove tecniche di dialogo tra l’amministrazione de Magistris e Marilù Faraone Mennella. Ci pensò proprio De Laurentiis a far saltare il banco, rivelando l’abboccamento. Perché a Napoli il denaro è considerato lo sterco del diavolo. Sarebbe bastato, e basterebbe, mettersi attorno a un tavolo e provare a immaginare un futuro. In una società autenticamente di mercato, De Laurentiis finirebbe col rivelarsi un freno e sarebbe travolto da progetti, investimenti e accordi pubblico-privato. Come del resto sta avvenendo a Roma, visto che questo progetto rappresenta comunque un duro colpo per i Caltagirone.
In un città in movimento, la gestione da piccolo-medio imprenditore di De Laurentiis non basterebbe. In una città come Napoli, invece, finisce con l’essere un esempio di imprenditoria illuminata.
Massimiliano Gallo