Quando rientrava con la Bmw 1602 in garage, allora sì che si capiva che era un calciatore. Per il resto Andrea Orlandini, nel condominio di via Petrarca 129, non si dava particolari arie. Nelle sere di metà settembre lo potevo vedere affacciato al balcone come noi altri, con un golfino blu sulle spalle a guardare le luci di Piedigrotta dall’alto e i fuochi a mare della città lontana. Salutava timido, con un cenno della mano, e poi tornava a puntare il suo naso sottile laggiù, oltre Posillipo. In quello stesso appartamento, più in là negli anni, sarebbe poi venuto a vivere Massimo Restelli, proprio il calciatore della Fiorentina con cui il Napoli lo avrebbe scambiato, e dopo ancora Luciano Marangon, un periodo in cui l’andirivieni di macchine, tavolate allegre e femmine pittate nel nostro palazzo diventò, diciamo così, abbastanza vivace.
Orlandini era invece un ragazzo tranquillo, molto cordiale con gli altri abitanti. Birillo, lo chiamavano allo stadio, perché si diceva che da ragazzino, nelle giovanili, saltasse gli avversari con grande facilità. Se ne andava via non tanto con il dribbling, quanto con le sue finte di corpo, gli bastava ancheggiare o ruotare intorno al busto, sporgere una spalla in avanti, per scattare e andarsene. Un mediano di bella gamba e di piede non del tutto ineducato, veniva di là d’Arno, come si diceva nella sua Firenze, dalla sponda sinistra del fiume, il borgo San Frediano, quartiere a cui Vasco Pratolini aveva dedicato uno dei suoi romanzi, portato poi al cinema da Zurlini. Zona di artigiani, orafi, restauratori, dove più a lungo ha resistito la vera fiorentinità e dove in questi ultimi anni si è inserita anche la città benestante.
La sera di mercoledì 20 novembre 1974, giusto quaranta anni fa, Orlandini fa il suo debutto in nazionale. Quattro mesi prima si era chiusa con il naufragio ai Mondiali in Germania l’epoca di Riva, Mazzola e Rivera. Via Valcareggi, panchina a Fulvio Bernardini e alla sua utopia della “nazionale dai piedi buoni”. Il campionato si era fermato dopo sei giornate per la prima partita di qualificazione agli Europei del 1976, a Rotterdam, nello stadio del Feyenoord, contro l’Olanda vice campione del mondo. Nello stesso girone anche la Polonia, che ai Mondiali precedenti era arrivata terza. Un gruppo impossibile da passare, infatti a Bernardini interessa più che il risultato ricostruire un serbatoio di giocatori con cui iniziare un cammino. Il Napoli di Vinicio è terzo in classifica con 8 punti dopo l’1-1 al San Paolo con la Lazio, alle spalle di una strana coppia di testa formata da Bologna e Juventus. Bernardini chiama in azzurro Juliano e Orlandini. Juliano avrebbe fatto il regista, Orlandini il mediano, moderno come era nella sua interpretazione del ruolo. In serie A Orlandini aveva debuttato in maglia viola grazie a Liedholm, che lo aveva lanciato perfino prima che Antognoni, pure lui alla sua prima presenza in azzurro in Olanda.
“Chi marcherà Rensenbrink?”, chiedono a Bernardini il giorno prima. E lui risponde: “Rocca”. “Chi marcherà Rep?”, è la seconda domanda. Bernardini risponde ancora: “Roggi”. “Chi controllerà Crujiff?”, ecco la terza. Bernardini allora si stizzisce: “Non sapevo che Crujiff andasse in giro con la balia”. Non vuole rispondere. “Uno. Lo marcherà uno di noi”. Quell’uno è Orlandini, il quale, incauto, si lascia scappare che non avrebbe perso il sonno dietro l’olandese, avendo lui già marcato in precedenza Rivera e Mazzola. Bernardini voleva che Orlandini ripetesse la marcatura di Vogts in finale a Monaco. Aveva anche un piano di riserva, se Orlandini non avesse retto: arretrarlo a terzino destro, spostare Roggi a sinistra e dirottare Rocca su Crujiff.
Dopo pochi minuti l’Italia è in vantaggio, ancora un altro po’ e gli azzurri si vedono negare il rigore del possibile 2-0. Ma quando Crujiff si mette in moto, il povero Orlandini non lo vede più. L’olandese fa due gol, uno per la verità in fuorigioco. L’Italia perde 3-1. Juliano non tornerà mai più in nazionale. Bernardini è abbastanza esplicito a fine partita quando parla di giocatori deputati a costruire la manovra che invece hanno tradito. Si riferisce a Totonno, non ad Antognoni. Ancora più diretto è su Orlandini. Se dovesse rigiocare, gli chiedono, lei utilizzerebbe ancora Orlandini su Crujiff? “Ci penserei un attimo di più”, risponde Bernardini, aggiungendo che non ha fatto sostituzioni “per non demoralizzare chi era in campo”. Orlandini avrebbe giocato altre due partite in nazionale, poi basta. Della successiva generazione ereditata da Bearzot non avrebbe fatto parte.
Qualche sera dopo l’Olanda, mio padre lo incrociò in garage con la sua Bmw e insieme salimmo in ascensore, Orlandini abitava al quinto piano. Mio padre gli fece i complimenti per l’esordio in nazionale, Birillo aveva l’aria di chi volesse evitare l’argomento. Mio padre fece la scemenza di insistere e di domandare: “È un bel traguardo, non è contento?”. A quel punto Orlandini, a giusta ragione, non si trattenne più. “Dottore”, gli rispose, “mercoledì sera il mio avversario ha fatto due gol. A lei pare che io possa essere felice?”.
Il Ciuccio