Mentre un anno di successi si chiude alle nostre spalle, e il vento che soffia da qualche ora sulle coste di queste parti del mondo ancora ci racconta di una serata di coppa in cui ci siamo sentiti tutti fratelli, da lontano, è forse il caso di alzare i calici e ricordare – a noi, e a tutti – che nessun successo arriva per caso. E che le coppe vinte, e magari quelle che si vinceranno, sono frutto di numerosi tasselli che abbiamo visto lentamente combaciare nel corso del tempo. E che questi tasselli è bene ricordarli.
Laicizzazione della passione
Dopo secoli di una città che si considera diretta emanazione del sangue di un santo e decenni di una tifoseria che ha legato a doppio filo il proprio successo con la manifestazione di un prodigio calcistico, Benitez ha finalmente introdotto il Napoli alla modernità della passione sportiva vissuta senza la necessità religiosa di affidarsi al miracolo. La squadra non deve affrontare guerre di appartenenza, i suoi successi non devono riscattare la cittadinanza. La passione è laica e non più figlia del sangue della provenienza geografica ma della bellezza, moderna e universale, del gioco.
Comunicazione in alto e in basso
Anche all’apice del proprio progresso, Napoli ha storicamente conosciuto la migliore schiera di intellettuali del continente che non è riuscita a fare breccia nei cuori e nelle teste di un popolo spesso spietatamente pronto a lucidare le lame delle proprie ghigliottine in Piazza Mercato. L’intelligente cammino dell’allenatore spagnolo è volto ad evitare, per quanto possibile, una nuova 1799: Benitez ha discusso, risposto a domande, spiegato, esemplificato senza requie a giornalisti, tecnici e addetti ai lavori, ma è anche sceso in strada a rispondere con grande serietà ai ragazzini del centro storico. Come un fiducioso insegnante del bello più che come un qualunque allenatore di calcio.
Fiducia negli uomini
Nessuna impresa esiste senza uomini che possano avere l’opportunità di impararne le trame. A chi ha snocciolato nomi di possibili acquisti, rimpiazzi, cambi e rincalzi, Benitez non ha mai smesso di spiegare che i movimenti sul campo si possono imparare, che i tempi di gioco si affinano con l’allenamento, la sintonia con la convivenza, e che se di certo non tutti godono di un talento innato, nessun talento apprende il linguaggio giusto per lasciarsi conoscere senza la dura fatica. Come spesso ribadito da queste parti, è un approccio nuovo, quasi calvinista, quello in cui ciascuno diventa infine artefice del proprio destino.
Internazionalizzazione
Da subito è stato chiaro che l’unica soluzione di crescita e maturazione per squadra e società fosse l’apertura del guscio partenopeo al mondo circostante. L’operazione è stata soprattutto culturale: Benitez ha intaccato immediatamente l’alibi preconfezionato della assoluta specificità storica e sociale nella quale la cittadinanza si illude di vivere, che renderebbe qualunque tentativo di miglioramento vano e di cui è figlio l’atavico immobilismo cittadino. Napoli, invece, deve capire di essere una città come le altre, alla quale possono applicarsi modelli di sviluppo già adoperati altrove con successo. E per questo si può partire dal calcio.
Lavoro di integrazione senza timore dell’isolamento
Benitez ha lavorato a lungo nell’isolamento della stampa e del tifo. Ma se da una parte ha sempre ribadito, in qualunque tempesta ed in modo lucido ma mai cocciuto, l’idea generale sottesa al suo lavoro, indicando un obiettivo lontano ma possibile, dall’altra l’allenatore ha sempre dato l’impressione di voler operare per coinvolgere. Avvicinare. Integrare. Compattare, sul campo, sugli spalti, in sala stampa, per le strade. Perché vincere con uno stadio vuoto può essere necessario ma, nell’economia generale di una storia, non ha senso.
Superamento di se stessi
In ultimo, non lavorando Rafa Benitez per la consacrazione del proprio personaggio, per vincere il trofeo da strappare alle mani altrui e alzare per primo davanti ai suoi giocatori, per dar vita alla agiografia di se stesso, il destino segnato per la squadra del Napoli è il superamento del tecnico spagnolo. La maturità cui siamo diretti è la possibilità di poterne fare a meno. La passione laica di Benitez garantisce al Napoli che non saranno necessari altri vent’anni di deserto sportivo e morale per tornare a vedere calcio. Che un giorno non perderemo il santo salvatore. Che la passione può sopravvivere agli uomini e al tempo, se è matura.
Qualcuno ha scritto, ultimamente, che il malessere del tifo è solo malcelata voglia di vincere, ed ha chiesto al presidente di investire, e farlo perché una volta raggiunto il successo “la città sarà ai tuoi piedi”. Il meglio di Benitez, invece, è il vasto racconto del calcio ad una città che può finalmente essere adulta. Che non deve mendicare una vittoria o cercare un ricordo di cui diventare serva. I servi, infatti, non camminano spalla a spalla con i propri padroni.
Buon anno, cari Napolisti (e non).
Raniero Virgilio