L’abbiamo vista campeggiare nella marea giallonera del Signal Iduna Park, immortalata da mille increduli obiettivi – ”Wenn du fällst bin ich bei dir”, una struggente dichiarazione d’amore che, non senza tradire qualche tipica incertezza che accompagna qualunque traduzione, possiamo rendere con “Se cadi sarò con te”. In questi giorni sembra essere la cifra stilistica di una avventura sportiva che, da Dortmund, sta insegnando il calcio al mondo intero. È una lingua drammaticamente poetica, il tedesco; mostra una forza che nasconde sempre un abisso, parla di una durezza che rimanda sempre a qualcosa di profondamente umano. La frase del tifoso è incardinata sul bin, il presente del verbo essere, prima persona, e attorno ad esso pare ruotare l’intera frase: non importa quanto in profondità, quale inspiegabile dolore dovremo descrivere, quale povertà dovremo condividere. Io ci sono, noi ci siamo. È una frase che sembra accompagnare il finale di un racconto, un’eco drammatica ma al contempo una dichirazione di intenti e una sfida agli avversari e al destino.
In questi giorni non facili per gli azzurri pensavo a quale potesse essere l’analoga controparte napoletana di questa frase. E, forse indotto dal clima natalizio ormai alle porte, mi sono tornate alla mente le parole che Luca Cupiello riserva alla moglie Concetta, nel primo atto della celebre commedia eduardiana. Concetta è sommersa dagli eventi, perde il respiro sepolta dai calcinacci di matrimoni in rovina e famiglie divise, e piomba sul letto esanime. Allora Luca inscena quasi una danza pagana, sente un terrore assalirlo, invoca la Madonna, ma nell’intricato gioco di specchi del teatro lo spettatore non riesce a intuire, fino in fondo, se egli chieda l’immediata guarigione della moglie o preghi che quel mancamento lo aiuti a levarsela definitivamente di torno.
Solo per un attimo egli sembra interrompere quella vertigine di finzioni ed essere sincero. Quando, togliendosi gli occhiali ed asciugandosi gli occhi, confida alla moglie quasi sottovoce: “Si tu muore moro pur’io”. È la dichiarazione d’amore totale, che parte da una bocca viva ma viaggia – nella piu’ aristocratica tradizione napoletana – sui binari del sovrannaturale. Nello stile, mentre la frase d’amore teutonica ruota attorno all’essere, quella eduardiana gira attorno alla morte, anzi due morti vincolate – la tua e la mia. Come hanno fatti i migliori del nostro passato, si parla d’amore discutendo di morte e, seppure parlandone con deferenza, Luca pare quasi sbeffeggiarla e schernirla in un sacrilego sberleffo finale. Sembra confidare tra le righe e con fare di sfida che tanto noi non moriamo. Nel contenuto, la frase è napoletana perché la sostanza di questa città, lontana dai panorami e le cartoline, sono queste memorie del sottosuolo, questo limbo indifferenziato, dove si muore ma non completamente, si vive ma non compiutamente, si attende e si esiste perché si percepisce quello che i nostri nonni greci chiamarono, con voce elegante, il pathos.
Ho pensato che la nostra versione di quel mirabile striscione del Borussia potrebbe essere questa riga di De Filippo. Da mostrare sulle nostre gradinate, tra i nostri spalti. “Napoli, si tu muore moro pur’io”. Per cui ora rialzati. Perché rialzarsi quando si cade è umano, ma rivivere quando si è morti è solo napoletano.
Raniero Virgilio