Dialogo tra il Ciuccio e il Cavalluccio marino alla vigilia di Cesena-Napoli. Tra Fellini, Mussolini e lo scudetto del Torino

“Niente caffè. Bevo solo acqua”. All’inizio credevo che il Cavalluccio Marino mi prendesse in giro. Ci vediamo in Villa comunale, davanti all’acquario Dohrn e manca pochissimo a Cesena-Napoli. “Ti parrà strano”, mi dice, “ma in questa stazione zoologica non c’ero mai stato. Me ne avevano parlato in tanti, così come dell’ospedale per le tartarughe di […]

“Niente caffè. Bevo solo acqua”. All’inizio credevo che il Cavalluccio Marino mi prendesse in giro. Ci vediamo in Villa comunale, davanti all’acquario Dohrn e manca pochissimo a Cesena-Napoli. “Ti parrà strano”, mi dice, “ma in questa stazione zoologica non c’ero mai stato. Me ne avevano parlato in tanti, così come dell’ospedale per le tartarughe di Bagnoli e del progetto per l’acquario di Vigliena. L’avete costruito poi l’acquario a Vigliena?”. Lascio perdere. Il Cavalluccio Marino è il simbolo del Cesena, viene da quella Romagna dove hanno allestito negli anni e in poco tempo l’industria dell’intrattenimento balneare. Farei fatica insomma a raccontargli dei nostri progetti interrotti o mai partiti. Meglio parlare di calcio oggi.

Ciuccio: “Nei giorni scorsi, Anna Trieste ha intervistato per il Napolista l’attrice Giuliana De Sio. Con lei ha parlato di una famosa scena che compare nel film di Massimo Troisi “Scusate il ritardo”.  Immagino tu sappia che per noi napoletani una partita con il Cesena è sempre il pretesto per ricordare quella scena, quel film e il genio di Troisi. Noi ci auguriamo che il Cesena rimanga in serie A per non perdere il rituale, la celebrazione collettiva. Vorrei capire invece cosa significa tutto questo per voi”. 

Cavalluccio Marino: “Quando il film uscì, siamo agli inizi degli anni ’80, il Cesena era un po’ come il Chievo di oggi. Non eravamo degli assoluti esordienti, anzi direi che in serie A c’eravamo fatti vedere, sentire e valere. Nel ’76 eravamo stati una delle cause dello scudetto perso dalla Juventus in favore del Torino. Erano anni in cui si diceva che la Juve non avrebbe mai perso due partite di seguito. Il 21 marzo la Juve viene nel nostro stadio, noi siamo al nostro terzo campionato consecutivo in serie A, e perde 2-1. La domenica dopo il Toro vince il derby e quella ancora dopo la Juve perde a San Siro con l’Inter. Li mandammo in crisi, sorpasso granata e scudetto. Noi arrivammo al sesto posto e ci qualificammo per la Coppa Uefa. Ma quella roba ci andò alla testa, tanto che retrocedemmo in serie B proprio nell’anno in cui giocammo in Europa. In A torniamo nel 1981 e finiamo dentro il film di Troisi. Quella scena, forse più della vittoria sulla Juventus del ’76, dice all’Italia calcistica che il Cesena esiste, che la Romagna esiste anche nel calcio”. 

Ciuccio: “Fino a quel momento in fondo siete un feudo juventino, una specie di dependance di passione bianconera, una delle tante sparse in Italia. È troppo se mi spingo a dire che il film di Troisi segna per il tifo romagnolo una presa di coscienza, un atto di nascita, una specie di alba identitaria?”.

Cavalluccio Marino: “Non ho mai pensato a quel film in questi termini. Negli anni ’70 il nostro orgoglio era andato alle stelle quando Pietro Anastasi aveva dichiarato di non aver mai trovato una provinciale così forte. Il Guerin Sportivo scrisse che giocavamo come un piccolo Brasile. Eravamo in anticipo su quello che poi in serie A diventò l’Avellino: un campo dove non si passa. Negli anni ’80 accadde semmai altro. Sul calcio italiano posò gli occhi tutto il mondo per la grande concentrazione di fuoriclasse arrivata. Noi stessi avemmo l’austriaco Schachner, i gruppi ultras cambiarono i loro nome adottando la lingua tedesca, i gruppi diventarono le Weisschwarz Brigaden. Il tedesco era la lingua con cui parlavamo con le turiste a Rimini. Quello che voglio dire è che il calcio è entrato tardi nei miti di Romagna”.

Ciuccio: “Tu parli di Romagna perché il Cesena andò subito oltre le porte della città, diventando la squadra di una regione. La Romagna non aveva mai avuto nel calcio un’esperienza simile. Ma dunque la mitografia del romagnolo dove ti sembra che sia stata partorita?”.

Cavalluccio Marino: “Intanto non devi sottovalutare che già verso la metà dell’Ottocento Massimo D’Azeglio scriveva che “la stoffa della razza romagnola è fra le migliori che si conoscano. Ha nelle vene sangue, e non crema alla vaniglia e quando c’è sangue se ne può cavar del buono”. Passa qualche decennio e lo psichiatra Guglielmo Ferrero aggiunge: “L’antico carattere italiano dell’età dei Comuni sopravvive ancora in Romagna. Ogni contrasto che incontra ai propri desideri negli altri uomini, il romagnolo vuol vincerlo con la forza; non ha pazienza di vincerlo indirettamente con raggiri più lunghi e mancando l’abitudine a questa pazienza, la reazione agli ostacoli è immediata. Il romagnolo al quale bisogna riconoscere la virtù del coraggio personale tanto che nessuna ingiuria suona più atroce di quella di vigliacco, risponde personalmente e immediatamente delle proprie azioni: insulta, rapisce una donna, lascia andare una coltellata senza pensarci sopra due volte. Come ad esempio nella difesa dell’onore delle donne”. Per Guicciardini i romagnoli sono disonesti e maligni. Si tratta certamente di semplificazioni, ma come in ogni semplificazione esiste una porzione di verità. Stereotipo per stereotipo, questo corpus di definizioni fece nascere l’idea che i romagnoli fossero i meridionali del Nord. Alla tesi si appassionarono in tanti e ci fu finanche chi indagò nel patrimonio genetico trovando profili simili e considerando tutto ciò una prova scientifica a quella che era una suggestione letteraria”.

Ciuccio: “Mi dici cose che non sapevo. Certo, anch’io ho spesso avvertito un’assonanza fra noi. Ricordo che il maestro Riccardo Muti una volta ne parlò, sostenendo che i romagnoli sono schivi e sospettosi come i meridionali. Io aggiungerei anche schietti, a volte fino alla turbolenza emotiva. Giudizi drastici, nel bene e nel male, con un’apparenza che spesso contrasta con la sostanza”.

Cavalluccio Marino: “La differenza, per come la vedo io, sta nella sfera sentimentale. A voi piace ostentarla, direi che a voi piace renderla teatrale. Su un triangolo amoroso la tradizione napoletana crea una storia drammatica, di sangue, Isso Essa e ‘o Malamente. Noi romagnoli, per dirla alla Tonino Guerra, siamo invece storicamente restii a lasciarci andare in pubblico, persino a un gesto affettuoso o a una parola dolce. Non pensare a oggi, oggi certi tratti peculiari si vanno perdendo. Io ti parlo di un patrimonio storico di gesti e di idee. Per decenni il nostro mondo è stato quello dei campi, degli animali, un mondo lontano dall’astrazione dell’arte, della poesia. Siamo terra di passione amorosa, eppure la vicenda dei due romagnoli Paolo e Francesca l’ha cantata un fiorentino. La radice romagnola sta nel senso, nel tatto, nella fisicità. Certamente conoscerai l’episodio celebre di quel ragazzino di scuola media di un paese romagnolo che va in gita a Firenze negli anni ’60, entra in Santa Maria del Fiore ed esclama: “Ostia, quanto fieno ci starebbe qua dentro”. 

Ciuccio: “Ecco, però io credo che tutta questa concretezza figlia di una cultura agricola sia poi servita a trasformare la Romagna nella grande industria balneare che è diventata a partire dagli anni ’70. La tendenza a privilegiare l’essere rispetto all’apparire è passata dalle classi popolari alle classi dirigenti. Mi chiedo quando però sia successo. Non voglio buttarla in politica, ma ricordo che per esempio Mussolini, romagnolo, proprio in Romagna non aveva quel consenso che raccoglieva nel resto del Paese”.

Cavalluccio Marino: “Attento. Per i maschi romagnoli, Mussolini era semplicemente Benito. Era uno di loro. Non per la politica. Mascolino, virile, di una virilità ostentata, esibita, rustica. I suoi successi con le donne erano vissuti dai romagnoli con enorme orgoglio. Era l’avversione al potere presente nel dna romagnolo a renderlo più distante dal popolo. Poi sono venuti Nenni e Zaccagnini. Ma per provare a rispondere al tuo interrogativo, io vorrei tornare al dopoguerra, al passaggio dal mondo concreto dei campi a quello della visione imprenditoriale che fa nascere Rimini e Riccione. Credo di non esagerare se attribuisco questa metamorfosi a Federico Fellini. Lui è la figura che introduce nel nostro campo d’azione il sogno, la visionarietà, l’immagine, la fantasia, l’idea che si possa vedere e toccare e far vivere qualcosa che non esiste. A un certo punto, così mi pare di ricordare, alcuni medici iniziarono a sostenere che la parte folle dei romagnoli fosse da attribuire allo scioglimento dei ghiacciai che ha trasportato lo iodio lungo la fascia appenninica, provocando squilibri del metabolismo. Balle. Il nostro metabolismo identitario è stato sovvertito da Fellini. Da lui in avanti il romagnolo declina la sua visione dei fatti quotidiani con l’epica, ingigantendo i ricordi, aggiungendo la malinconia al proprio tesoro di stati d’animo, trasformando il rapporto con la morte da biologico in poetico. Su una lapide nel cimitero di Riolo Terme c’è scritto: Sono qui contro la mia volontà. Non ti pare felliniano tutto questo?”.

Ciuccio: “La tua tesi è molto affascinante. Non conosco abbastanza il cinema per addentrarmi in questo ragionamento, ma da appassionato di calcio mi viene in mente che la Romagna è poi stata terra di commissari tecnici della nazionale: Edmondo Fabbri, Arrigo Sacchi, Azeglio Vicini. Anche una nazionale è una squadra che non esiste e che devi immaginare, far fiorire dal nulla. Seguendo il tuo paradosso anche una nazionale è un’idea felliniana, un commissario tecnico romagnolo dovrebbe allora essere il massimo a cui si possa ambire”. 

Cavalluccio Marino: “Un contesto di ricchezza, non c’è dubbio, accelera certi processi. Non voglio ammorbarti con la storia della Cassa del mezzogiorno che conosci anche meglio di me. Eppure la ricchezza, lo abbiamo imparato, si genera anche dal nulla. Non puoi far passare gli anni aspettando che qualcosa ti venga calato dall’alto. Pur essendo città natale di tre papi, Cesena in questo è profondamente romagnola. Riaffiora la concretezza, il mondo dei sensi, la distanza dal sovrannaturale. Noi e voi abbiamo due proverbi uguali nel significato, ma opposti nell’enunciazione e da questo punto di vista anche simbolici. Voi dite che senza denari nun se cantano messe, stabilendo in tal modo una gerarchia forse delle priorità. Lo vedi? L’attesa, la preghiera, il destino, vulesse ‘o cielo, assa fa’ ‘a Madonna. Da noi si dice che senza quatren, un se fa baler i buraten. Senza quattrini non si fanno ballare i burattini. Come lo monti il teatrino se non puoi pagare? Fellini risponderebbe: sognalo. E vivrà”.
Il Ciuccio

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