La lunga degenza calcistica di Marek Hamsik finisce quando Henrique fa il cross giusto per la sua testa, e la palla colpita con una eleganza asciugata da anni di esercizio supera Handanovic. Prima, quello che di fatto è un tenero barbaro, ha sbagliato più partite dei canestri consigliati da Michael Jordan per arrivare in cima, mendicando cross che non arrivavano e calciando fuori porta tiri su tiri. Incarnandosi nel calciatore sentimentale e indolente che finisce per essere il marcatore del proprio talento. Autocreando un nemico personale che lo metteva malamente fuori dalle partite e dai suoi tentativi di dribbling. Sembrava di vedere un pinguino che provava a scavalcare un muro, rimaneva sempre a un tocco dal riuscirci. Persino quando scattava in avanti pretendendo il passaggio poi sbagliava il tiro.
Diviso tra figuraccia ed epopea, tutto il suo gioco è un oscillare alla ricerca di se stesso. Dell’Hamsik che a molti sembra un capriccio arbitrario del passato e che per altri è solo un campionato che non va. Sembra davvero un Amleto in campo, alle prese con l’inverno del proprio sconforto. Troppo colto per essere indifferente ai propri errori, troppo complicato per buttare la sua triste condizione in leggerezza, troppo aristocratico per dare le colpe agli altri, troppo intelligente per cedere. Tutti questi eccessi fanno di lui un calciatore fuori dal tempo del campo. Nell’infallibile schema del facile giudizio: è solo uno che è caduto e non sa rialzarsi, per le regole del calcio avrebbe dovuto cambiare aria, ma Hamsik non è mai stato ordinario, non giocherebbe la pallastrada con i ragazzini in un parcheggio di un supermercato.
Collocato dalle cattive giocate al “centro del dibattito” non si è sottratto, non ha invitato a fischiarlo di più, non si è fatto vittima del suo insuccesso, no, ha solo sostenuto come unica tesi difensiva che nella memoria sta il senso del calcio. Sì, certo, anche nella partite vinte e nei gol fatti e via così. Ma appellandosi alla memoria cercava di dire: se vi ricordate che cosa ero, capirete i miei sforzi per ritornare, e la fatica e gli errori che ci vogliono per reintrodursi nel calciatore che sono stato.
Il problema di Hamsik è la sua eccezionalità che male si adatta a qualunque modulo, c’è anche una timidezza alla Nino Manfredi, che vedi solo dopo, nell’amarezza di non riuscire mai ad essere violento né con le parole né con le azioni. Può sembrare un senso di superiorità, invece no, in buona sostanza è una riverenza verso il proprio talento, che diventa incapacità di gestione. Niente a che vedere con Balotelli, per capirlo basta immaginare i due senza il calcio: Hamsik finirebbe per essere il secchione punk e Balotelli il dj con le infradito. Perché Hamsik è fregato dal passato, dalla memoria, viene da un paese che non permette lo scherzo, ed è seduto su campi che sono difficili e fangosi, rispetto al sottosuolo di Balotelli. Tutta la sua libertà sta nella concessione barbara alla sua testa, il resto è accademia. Per questo non è scomposto nemmeno negli errori. Ogni volta che lo vedo uscire sconfortato dal campo penso a Walter Matthau che in “Prima pagina” di Billy Wilder dice allo sceriffo lotitiano e al sindaco tavecchista: «C’è un arcano potere che incombe sul Chicago Examiner». Deve esserci un maleficio anche su Hamsik, e viene dalla sua memoria. Perché non è un uomo di istinto ma di ordine, che ha dalla sua un superiore principio di intuizione e il sapere boskoviano che ci sono partite d’ombra e tiri sbilenchi che aspettano tutti, in campo e fuori.
Marco Ciriello