Il primo capitolo del libro scritto da Francesco Caremani: “Heysel. Le verità di una strage annunciata”, un testo da brividi sulle follie, le responsabilità e le omissioni che hanno preceduto, caratterizzato e seguito quella serata
29 maggio 1985, allo stadio Heysel di Bruxelles si gioca la finale di Coppa dei Campioni tra Liverpool e Juventus. La partita passerà alla storia come una delle più grandi tragedie dello sport. Trentanove morti, di cui trentadue italiani, tifosi della Juventus, oltre seicento feriti. Quel che leggerete di seguito è il primo capitolo del libro scritto da Francesco Caremani: “Heysel. Le verità di una strage annunciata”, un testo da brividi sulle follie, le responsabilità e le omissioni che hanno preceduto, caratterizzato e seguito quella serata. Oggi sono trent’anni.
Le testimonianze private
I primi ricordi angoscianti e drammatici, i primi racconti della tragedia arrivano dritti all’indignazione.
Giorgio Bianchi, di Finale Ligure, racconta la scampata tragedia e la paura per la moglie Laura: “La cercavo disperato in quell’inferno, la chiamavo ma la mia voce si perdeva nel frastuono delle mille altre voci e dei lamenti. Poi là, nell’angolo dove erano ammassati i cadaveri, ho visto una maglia verde, la sua maglia. Era lei, tra i morti. L’ho toccata e mi pareva d’impazzire, e ancor più ho creduto di perdere la testa quando mi sono accorto che respirava”. Laura fu operata la notte stessa d’urgenza e si è fortunatamente ripresa dopo un coma di alcuni giorni.
“A un certo punto ho creduto di morire” racconta Adriano Fronzaroli a La Nazione “Ero, lì, in mezzo alla curva maledetta, mentre gli inglesi, fanatici e ubriachi, avanzavano roteando cinturoni pieni di borchie di metallo. Nella ressa sono caduto su un mucchio di corpi. Altra gente mi si è accalcata sopra. Quasi non respiravo più. È finita pensavo. Poi la massa umana ha avuto un sussulto, si è scossa, e io ho rivisto uno scampolo di cielo. Ho allungato istintivamente una mano e qualcuno, non so chi, l’ha afferrata e mi ha tirato fuori. Sono tornato a casa pesto, senza una scarpa ma, se Dio vuole, salvo (…) Lì, nel settore «Z» non c’erano ultras juventini. Eravamo tutti tifosi tranquilli. Alcuni li avevo incontrati anche due anni fa ad Atene, nella finale con l’Amburgo. A un tratto abbiamo visto tre ragazzi in maglia rossa scavalcare la rete e venire di corsa verso di noi. Hanno afferrato gli striscioni bianconeri, li hanno strappati e pestati. Nessuno ha risposto alla provocazione.
Non so, io non sono certo un violento, ma ho avuto l’impressione che proprio questo atteggiamento remissivo abbia scatenato gli altri. In cento-duecento hanno spaccato la rete invadendo il settore nostro. La gente intorno a me ha avuto paura. Non volevamo affrontarli: noi ragionavamo, loro no. Ci siamo addossati al muro nel tentativo di scappare, di trovare una via per andarcene. In quel momento è scoppiata la tragedia. Il muro è crollato e abbiamo fatto il monte. Mentre venivo travolto ho visto un ragazzino vicino a me: gridava aiuto e un signore, già coperto di sangue cercava di aiutarlo. Poi non li ho più visti e non ho avuto il coraggio di andare a sollevare i lenzuoli che coprivano i cadaveri dall’altra parte delle tribune. Zoppicavo e cercavo la scarpa perduta nella mischia. Sono andato a prendere il pullman e l’aereo camminando con un calzino.
A Ostenda, all’aeroporto, un infermiere mi ha fasciato con della garza (…) Il servizio d’ordine era ridicolo: appena venti poliziotti, nemmeno fossimo a una partita della Rondinella. C’erano anche i cani, forse sarebbe bastato lanciarli contro gli inglesi quando tentavano di saltare la rete. Invece li hanno tenuti al guinzaglio. Incredibile! E lo stadio? Troppo piccolo e non attrezzato per una finale di Coppa dei Campioni. I gradoni si sbriciolavano a toccarli. Gli inglesi si sono muniti di sassi rompendo proprio quelli (…) Siamo stati in parecchi a salire in pullman. Qualcuno ha acceso il televisorino di bordo. Non mi sono piaciute, questo voglio dirlo chiaramente, la scene di entusiasmo dei giocatori. Condanno anche i caroselli di Torino. Quelli gridavano e sventolavano le bandiere perché non avevano visto la morte in faccia”.
Sempre da La Nazione, Walter Varano, uno degli organizzatori dei viaggi partiti da Firenze: “Ho fatto in tempo a uscire dallo stadio prima che fosse impossibile. La fiumana degli inglesi che ci è venuta contro ha travolto i tifosi che si trovavano più in basso. Io ero in alto, sono riuscito ad arrampicarmi su una specie di casetta e a uscire dallo stadio. Appena fuori ho cercato di riorganizzarmi per riportare a casa tutti. È stato uno spettacolo bestiale, gli inglesi erano chiaramente ubriachi fradici e hanno attaccato con furia selvaggia”.
“Guardi, queste cose dovete scriverle” dice Danilo Bartolozzi, pellettiere di Impruneta, “Quelli del Liverpool avevano pistole, forbici, coltelli, spranghe. Hanno ammazzato un ragazzo con un lanciarazzi, ho visto tutto con i miei occhi. E hanno potuto portare tutto dentro perché nessuno è stato perquisito all’ingresso dello stadio. Erano anche ubriachi, quasi tutti. Non ho mai visto buttar giù lattine di birra una dietro l’altra in quel modo (…) Solo per un caso non siamo andati anche noi lungo quella balaustra che poi è crollata uccidendo tanta gente. C’erano alcuni amici che avevamo conosciuto in viaggio, il Balli di Prato, per esempio, uno dei primi morti di cui hanno fatto il nome. Volevamo raggiungerli, ma era troppo faticoso e abbiamo rinunciato. È stata la nostra salvezza…
È cominciato tutto col lancio di razzi. Dalla zona degli inglesi ne è arrivato uno, poi un altro e un altro ancora. Il quarto razzo ha colpito in pieno un tifoso. Era a venti metri da me. L’ho visto cadere, era una maschera di sangue. Nessun poliziotto è intervenuto (…) A un certo punto abbiamo visto alcuni giocatori del Liverpool, tra cui il portiere, che incitavano i tifosi sugli spalti. Gridavano sempre più forte, ci siamo tutti chiesti perché aggiungere benzina al fuoco. Avevamo ragione perché quegli ubriachi non si sono calmati più. Hanno cominciato a lanciare pietre, a decine (…) Io mi trovavo in alto, quelli in basso sono stati travolti. Più scappavano, più gli inglesi incalzavano. Con molti altri siamo riusciti a fuggire facendo un buco nella rete. C’erano coltellate, pestaggi, ho visto prendere a pugni ragazzi giovanissimi. Uno è stato praticamente salvato dalla madre, che si è lanciata addosso agli aggressori. Le hanno strappato il binocolo, poi per fortuna l’hanno lasciata perdere. Li per lì non ci siamo resi conto dei morti. Li ho visti dopo, schiacciati, insanguinati, irriconoscibili. Non si trovavano più i compagni di viaggio, all’aeroporto ne mancavano tanti. Era una sensazione terribile. Abbiamo pianto, abbiamo pianto tutti”.
Michela Merlo, 19 anni, abbraccia i genitori e dichiara: “I reds avevano coltelli e lanciarazzi. Applaudivano i morti”.
Barry O’Hara, sbarcato in Inghilterra, dice senza nascondersi: “Sono stati i tifosi del Liverpool a iniziare gli incidenti. Era chiaro che avevano bevuto troppo. Hanno invaso il settore italiano cercando la battaglia, hanno abbattuto la recinzione e caricato i tifosi juventini”. Francis Burkert, anche lui inglese, esprime la sua tesi sui biglietti e il settore Z: “È chiaro che a Bruxelles qualcuno ha fatto il furbo mettendo le mani sui biglietti destinati ai tifosi del Liverpool e rivendendoli poi al mercato nero. Ho visto, prima della partita, i tifosi juventini acquistare i biglietti per 70 sterline. Questo spiega perché italiani e inglesi sono finiti in settori adiacenti e non protetti dalla polizia”.
L’arbitro Luigi Agnolin di Bassano del Grappa era stato mandato dalle famiglie di due carissimi amici a recuperarne le salme. I giornalisti sono tenuti lontani dall’ospedale militare di Jette dove giacciono i morti.
Alessandro Antonini è un altro che può raccontare con un sospiro di sollievo la propria disavventura, sua moglie ha rischiato di morire. Si viene a sapere che a Roberto Lorentini, figlio di Otello, medico di Arezzo, dopo la morte hanno rubato portafogli e catenina.
Otello Lorentini racconta a caldo quello che è successo, quello che ricorda, con molta lucidità: “È stata una tragedia voluta, provocata dall’incapacità degli organizzatori belgi, della polizia, dei responsabili della federazione internazionale. Denuncio queste lacune imperdonabili. È inconcepibile spezzare in questo modo la vita di un uomo di trent’anni. Qualcuno deve pagare. Io ho già pagato: ho perso un figlio… Prima che cominciassero le cariche degli inglesi ero abbastanza tranquillo. A un certo punto ho visto che nella zona della curva erano rimasti solo dieci poliziotti. Entrava troppa gente.
Gli inglesi hanno iniziato ad agitarsi. Sempre di più. Un sasso l’ho fermato con il giornale. Andiamo via, ho detto a mio figlio e ai nipoti. Gli inglesi hanno smontato la rete di divisione e ci hanno tirato addosso di tutto: pezzi di ferro, lattine, proiettili di cemento. E hanno caricato per la prima volta. Il nostro gruppo ha cominciato ad arretrare in maniera paurosa. C’erano donne e bambini, nessuno se la sentiva di accettare gli scontri. La polizia non interveniva. Noi eravamo a metà della curva. Vedevo il muro sempre più vicino. Mi sono attaccato alla colonna di una traversina. Roberto era attaccato a me. Andiamo via, gli ho urlato. Sì, sì mi ha risposto. Poi è arrivata un’altra ondata di tifosi caricati dagli inglesi. Mi sono girato e ho visto che Roberto non c’era più. Era sparito, ingoiato dalla folla. L’ondata di gente mi è passata accanto. È seguito un attimo di calma: mi sono buttato verso il campo. Era impossibile mettersi tutti in salvo: le sole due uscite erano le due porticine di un metro scarso, una delle quali si apriva solo verso l’esterno.
Sotto la spinta della folla in fuga sono crollate anche le architravi di cemento. Ho visto un varco libero e mi sono lanciato in avanti. Una volta in campo ho preso ad agitare una sciarpa e a chiamare. È stato lì che ho visto mio nipote Andrea con le mani nei capelli. Mi sono avvicinato: Roberto era rimasto sulle gradinate. Morto, schiacciato. Aveva un graffio sulla fronte. Cosa dovevo fare? Accanto a noi c’era un mucchio di corpi senza vita. È arrivato un poliziotto belga e ha cercato di strapparmi Roberto. Stavano portando via i morti. Mi sono ribellato, perché vedevo che li trascinavano senza rispetto. Sono arrivati altri due poliziotti. Questo è mio figlio, ho gridato, lasciatemelo. Poi, con i miei nipoti, abbiamo sollevato Roberto e lo abbiamo portato, noi, ai furgoni… Prima di lasciare lo stadio ho visto gli inglesi che si divertivano a lanciare in aria le cose dei morti: scarpe, borse, macchine fotografiche. Scene disgustose.
Poi siamo usciti, ma era impossibile trovare un telefono, o un taxi. Ne abbiamo fermato uno quasi a forza e ci siamo fatti portare all’obitorio. Qui i belgi ci hanno costretti ad aspettare più di tre ore. Ci trattavano con arroganza: un comportamento scandaloso. Solo alle tre di notte ho rivisto il corpo di mio figlio e ho notato che non aveva più la catenina d’oro al collo e la fede. I belgi ci hanno detto che gliele avevano tolte per identificarlo. Ma non era vero: se le sono prese i poliziotti. Scriva che voglio denunciare le lacune di tutta l’organizzazione, la scelta di uno stadio inadeguato, il comportamento dei belgi. Solo l’ambasciatore italiano si è comportato molto bene con noi. Qualcuno deve pagare per la morte di mio figlio”.
Basterebbero queste parole, basterebbe questa ricostruzione, ma purtroppo le meschinità in questa vicenda, gli sciacallaggi, i silenzi, i tentativi di eludere le responsabilità, di buttare tutto nel dimenticatoio il prima possibile e le promesse non mantenute hanno costellato ogni giorno dopo quel 29 maggio dell’85.
Gianni Stazio, nipote di Otello e cugino di Roberto, ricorda il ritrovamento del corpo: “Stavo aggirandomi come un pazzo fra le gradinate, in quel campo di guerra che era la curva Z, ero dolorante al volto e al corpo perché avevo preso pugni, calci, sassate e non so cos’altro. Ad un certo punto, in un momento di lucidità, mentre il terrore, la rabbia e il dolore mi avevano preso alla gola, ho visto delle persone per terra. Erano dei morti ammazzati in maniera barbara. Fra quella massa di corpi, uno sopra l’altro, sono spuntate due mani che ancora si muovevano. Allora ho cominciato a tirare quelle mani, per portare aiuto ad una persona che ancora non era morta. Proprio in quel momento è arrivato mio fratello Andrea, insieme abbiamo cercato di liberare quel corpo di cui non vedevamo il volto. Tira, tira ci siamo riusciti.
Ed è stata una scoperta allucinante. Sapete di chi era il corpo? Di mio cugino, Roberto Lorentini… Era morente, fra una confusione e un frastuono indescrivibili, abbiamo praticato la respirazione bocca a bocca, eravamo disperati e sconvolti. Nel giro di qualche minuto, impossibile sapere quanto tempo fosse passato, è venuto lì da noi anche mio zio Otello, il padre di Roberto. Immaginate la scena, immaginate un padre che vede un figlio che ormai è spacciato. Ci siamo rivolti ai poliziotti belgi, ai medici per avere aiuto ma non funzionava nulla… L’organizzazione belga è stata vergognosa, scandalosa. Pochi poliziotti e incapaci, non c’era un servizio medico, non c’erano ambulanze, c’erano dei morti e dei feriti lasciati lì per terra… La mattina dopo in macchina abbiamo incrociato il pullman del Liverpool e non abbiamo potuto trattenere la nostra rabbia, Rush e alcuni suoi compagni ci hanno risposto ridendo… Il sindaco di Bruxelles è un bugiardo, dice che i tifosi italiani hanno reagito alle provocazioni degli inglesi. Magari avessimo reagito. Ora non staremmo a contare tutti questi morti, fra cui mio cugino”.
Enrico Ameri racconta di essersi imbattuto in un uomo che piangendo e prendendogli le mani gli ha detto: “Non so più se sono un uomo oppure un verme. Per fuggire ho calpestato gente che era caduta per terra”, una cosa che è successa a molti in quei momenti disperati in cui si consumava la tragedia più grande che potesse mai colpire il calcio.
Otello Lorentini troverà al forza, dopo aver seppellito Roberto, di partecipare al funerale dell’altra aretina morta, Giuseppina Conti, partecipando anche al dolore della famiglia, il dolore insopportabile e comune della perdita di un figlio.
Fausto Cerini, medico dell’Ospedale di Foiano, è uno dei superstiti della curva Z, insieme alla moglie e a degli amici: “… Al contrario di molti non mi sento di condividere la caccia agli inglesi. I maggiori responsabili sono stati gli organizzatori e coloro che erano deputati all’ordine pubblico… Eravamo nella maledetta curva. Devo dire che ho avuto paura subito, appena sono entrato nello stadio, vedendo quella folla abbandonata, eccitata, ho avuto un terribile presentimento. L’attimo più brutto quando ho perso mia moglie. Mi sono ritrovato fuori dallo stadio, quasi con un vuoto di memoria, mia moglie e i miei amici fortunatamente erano dentro il recinto del manto erboso”.
Otello Lorentini non si dà pace, ma la sua angoscia lo porterà lontano a combattere una battaglia lunga e difficile, irta d’ostacoli e zeppa d’omertà, ma per onorare la memoria dell’unico figlio è il minimo che possa fare: “Vi potete immaginare la nostra angoscia. Ma proprio in nome di Roberto vogliamo che si faccia il possibile per accertare le responsabilità e per individuare e condannare i colpevoli e chi non ha preso le necessarie misure di sicurezza. Voglio continuare a denunciare l’impreparazione della polizia belga, l’inadeguatezza dei soccorsi e tutte le imperdonabili leggerezze dell’organizzazione. Inoltre mi devono saper dire chi ha fatto sparire la fede e la catenina d’oro di mio figlio. Quando l’ambulanza lo portò via aveva tutto addosso. Voglio anche far sapere l’arroganza e la brutalità con cui i belgi hanno trattato a Bruxelles noi parenti delle vittime”.
Claudio Chiarini, consulente finanziario di Arezzo, detta a La Nazione una ricostruzione precisa degli eventi, di quello che lui ha potuto vedere e personalmente giudicare, ricostruzione che pone dubbi e quesiti comuni: “UEFA: incredibile leggerezza da parte di un organo competente nell’allestire una finale di coppa dei campioni in uno stadio assolutamente improponibile. Troppo piccolo rispetto al prevedibile enorme afflusso di spettatori (si diceva fin dall’inizio che la finale sarebbe stata fra Juve e Liverpool, come in effetti è stato, e già questo era sufficiente per ricercare uno stadio sicuro da almeno 80-100 mila spettatori). Lo stadio scelto è decrepito, poteva essere facilmente smantellato ed infatti le gradinate della curva sono state divelte e sono diventate pietre da lanciare, come hanno fatto gli inglesi; il muretto laterale è addirittura crollato sotto la pressione degli spettatori. Gli accessi allo stadio, due porticine strette (circa 80 centimetri) hanno creato enormi problemi per entrare e sarebbero state trappole mortali in caso di fuga. Le reti di divisione tra i settori Y e Z non so se fossero state messe per l’occasione. Presuppongo che l’Uefa le avesse viste e, se così è stato, com’è possibile che siano state ritenute idonee per fare da baluardo se con qualche strattone sono state abbattute?
BELGIO: contrariamente a quanto affermato, la polizia belga non era in alcun luogo e non ha mai tutelato l’ordine pubblico, né fuori, né dentro lo stadio. Infatti, i teppisti inglesi hanno impunemente devastato Bruxelles senza che alcuno glielo abbia impedito (furti, esercizi commerciali distrutti, piazze lastricate di vetri di bottiglie). Dov’era la polizia? All’interno dello stadio una quindicina di poliziotti e solo quattro o cinque vicino alla rete che separava i settori Y e Z della curva nord. Poliziotti che alle prime cariche sono letteralmente fuggiti e anche malmenati, mentre quei pochi che erano in campo non solo non sono mai intervenuti, ma anzi hanno picchiato gli italiani che per salvarsi saltavano in campo. Dov’era dunque la polizia e chi doveva dirigerla? Nei giornali invece si parlava di 4 o 5 mila poliziotti.
Controlli allo stadio
Perché noi italiani siamo stati tutti controllati (infatti, entravamo lentamente allo stadio) mentre gli inglesi sono entrati liberamente a fiumana senza alcun controllo portando con loro casse di birra e bottiglie di ogni genere, spranghe di ferro o di legno raccolte in un cantiere proprio dietro alla curva? Com’è possibile che il controllo all’ingresso sia stato fatto da un omino di 50 o 60 anni? Per evitare che si ubriacassero non dovevano essere vendute bevande alcoliche, ma lontano e vicino allo stadio si vendevano bevande d’ogni tipo. Nel settore degli inglesi, dal quale sono entrato, i due poliziotti addetti al controllo si sono trattenuti qualche minuto e poi se ne sono andati. Da qui l’ingresso nel settore Y e X di 4 o 5 mila inglesi senza biglietto; vedevo infatti quel settore gonfiare a dismisura, a una velocità doppia della nostra. L’accesso alla curva era facilitato da una collinetta che portava all’ingresso dello stadio; dov’erano le reti di sbarramento; e perché un cantiere, vero e proprio arsenale di guerra, sotto a quella collinetta, anch’esso incustodito? LIVERPOOL: tutti ubriachi fradici i suoi tifosi che, per questo motivo, non dovevano essere fatti entrare nello stadio, né vagabondare per la città; erano intenzionati a uccidere perché erano armati di tutto punto. Infatti, siamo stati bersagliati prima con sassi e bottiglie, poi con razzi ad altezza d’uomo per farci indietreggiare. Hanno scavalcato la rete divisoria, dapprima con pochi elementi che hanno strappato e bruciato le nostre bandiere ridendo e chiamandoci alla rissa. Poi scavalcamento totale e assalto per schiacciarci contro il muro della curva aggredendo e accoltellando persone inermi e indifese. A monte dunque le enormi colpe dell’Uefa, a valle l’omicidio premeditato, perpetrato sotto gli occhi di tutto il mondo, dagli assassini del Liverpool, avallati dalla polizia belga che non è mai intervenuta con i pochi reparti presenti come se nulla stesse accadendo. Invece venivano uccisi 39 innocenti”.
Italiani utilizzati come carne da macello, anche se in quel mercoledì nero sono morti con loro belgi, francesi e un inglese.
Salme rimandate a casa in condizioni inaccettabili per qualsiasi Paese civile, forse peggio di come venivano rimandati a casa i nostri connazionali morti dentro le miniere di carbone.
Un aretino, Roberto Verdelli, scrive al quotidiano La Nazione la sua versione dei fatti, la sua testimonianza: “Caro direttore, quale testimone oculare dei tragici fatti di Bruxelles (per mera buona sorte ho cambiato il biglietto del maledetto settore Z con uno di tribuna numerata poco prima dell’inizio della partita), non so ancora darmi pace per l’accaduto, a mio avviso prevedibile e soprattutto facilmente evitabile. Lungi da me l’idea di giustificare i criminali tifosi del Liverpool (che però, si badi bene, non sono poi molto più criminali delle frange teppiste dei tifosi della Lazio, del Milan, dell’Inter e della stessa Juve), tuttavia non sono d’accordo con coloro che hanno definito «volontari, proditori e premeditati» gli attacchi degli scatenati (ed ubriachi!) tifosi «reds» agli inermi sostenitori bianconeri del settore Z (in maggioranza donne, bambini e anziani). Io credo, infatti, che gli inglesi non avessero intenzione, almeno in origine, di attaccare i tifosi juventini, ma che il loro sconfinamento nel settore Z sia dovuto ad un motivo che non è stato considerato e riportato da alcuna cronaca: i tifosi inglesi erano in numero tale (non meno di 15 mila) che i due settori loro assegnati (X-Y) erano divenuti assolutamente insufficienti a contenerli tutti (e moltissimi altri stavano ancora affluendo). Al contrario nel settore Z c’era abbastanza posto e per giunta tra i due settori si era creata una «prudenziale terra di nessuno». Ecco, questi spazi vuoti nel settore juventino hanno funzionato quasi da invito ai tifosi inglesi, che, costretti e ristretti in spazi del tutto insufficienti, hanno facilmente divelto la sottile rete metallica divisoria e si sono riversati nel settore Z, dapprima in poche decine e poi in qualche centinaio. Io non so se essi in quel momento avessero l’intenzione di attaccare i tifosi juventini, o se piuttosto li abbiano voluti spaventare per costringerli a ritirarsi, conquistando così un maggiore spazio della curva (anche se, personalmente, propendo più per questa seconda ipotesi). Ma, certamente, l’aver potuto portare un primo attacco e poi un secondo, senza trovare difficoltà o resistenza alcuna, dopo averli invogliati e direi quasi stimolati a proseguire nei successivi assalti, in un gioco al massacro spinto, purtroppo, fino alle tragiche conseguenze che tutti conosciamo (?, n.d.a.). Concludendo, direi che le colpe dell’organizzazione (scelta di uno stadio inadeguato, sottovalutazione della pericolosità e del numero dei tifosi del Liverpool e loro assegnazione di due soli settori su tre della curva, del tutto insufficienti) e le responsabilità del servizio di ordine pubblico allo stadio (assenza di un adeguato cordone di polizia tra i settori e mancanza di un pronto intervento per contenere e reprimere, dopo il primo, i successivi attacchi), non sono certamente inferiori a quelle dei reds del Liverpool”. Un racconto ‘semplice’, ma per certi versi efficace.
Altri particolari vengono alla luce, si racconta che non ci fossero ambulanze e quelle disponibili erano quasi tutte senza autista, oltre tutto i pochi poliziotti belgi che sorvegliavano il settore Z si sono messi a picchiare gli italiani che cercavano di salvarsi la vita buttandosi nel campo. Comportamento colpevole e ottuso di gendarmi che avevano ricevuto un solo ordine perentorio, sulle invasioni di campo. La preparazione della polizia belga era tutta qui.
Passano i mesi e le promesse svaniscono, con esse la giustizia come scrive in modo semplice, garbato e perentorio Riccardo Scottoni su Reporter: “Non sbagliavamo: come le vittime di tante vicende non sportive esistono 39 famiglie che giustizia e risarcimento hanno avuti promessi e fino ad oggi si sono ritrovate con un pugno di mosche. Se si esclude qualche tifoso inglese e alcuni funzionari della polizia belga nessun responsabile è stato individuato, né cercato (dopo quasi 7 mesi, n.d.a.). Inoltre abbiamo appreso che quei 10-20 miliardi di risarcimento che furono promessi, allo stato dei fatti, si sono ridotti a poche centinaia di milioni. C’è chi storce il naso quando si parla di soldi per «pagare» una morte. Sbaglia. E dimentica che ci sono dei bambini che hanno il diritto di vivere, almeno economicamente, come gli altri. Nei giorni susseguenti la tragedia scrivemmo che lo sport avrebbe fatto di tutto per dimenticare e far dimenticare, il più presto possibile. Ma non credevamo che avrebbe fatto mancare anche la solidarietà alle vittime. Invece è successo anche questo e i complici, in quest’opera, sono molti”.
Otello Lorentini, sulle pagine dello stesso giornale, è chiamato a ricordare ancora una volta: “Non posso disperarmi, i bambini pensano che Roberto sia in America per un convegno. Aspetto che siano a dormire per piangere. Mia moglie va al cimitero tutti i giorni. E io piango. Roberto e io eravamo molto uniti, non solo per il fatto che era il mio unico figlio. È che ci sapevamo parlare, a volte si prendeva e si andava via insieme, io e lui, come due buoni amici. Per lui e per i bimbi a Natale sono andato in pensione. Sa, a sessantuno anni si hanno ancora delle cose dentro, io ero funzionario delle ferrovie a Firenze, il lavoro mi piaceva. Ma Roberto voleva che stessi più con loro, per aiutarlo a crescere i bambini. Così gli ho fatto il regalo di Natale. Roberto era felicissimo: quattordici ore di lavoro lui, mia nuora che si doveva laureare (…) Mio figlio aveva ottenuto il posto fisso in ospedale, proprio quel maledetto giorno, il 29 di maggio. Il tempo di festeggiare un pochino, sa era un bel traguardo, con la prospettiva di diventare molto presto aiuto del primario. Hanno scritto che vogliamo i soldi. Non è vero, vogliamo che i responsabili paghino. Vogliamo ritrovare la pace. Oggi ho ancora la forza e la lucidità per lottare, fra dieci anni non so, non so quanto dureremo, perché qui si piange tutti i giorni. E di notte è come se mi si aprissero dei cassetti nel cervello: un cassetto, un ricordo, un ricordo di quella sera, di quella notte. Perché allo stadio Heysel c’ero anch’io, con mio figlio (…) Roberto era juventino, ma Bruxelles, come l’anno scorso Basilea, non era una trasferta di fede sportiva. Era un viaggio di piacere, un’occasione di cultura. Abbiamo prenotato il viaggio alla Ciocco Travel di Bologna, i biglietti erano quelli di tribuna. Poi, il giorno stesso della partenza, ci hanno detto che le tribune non c’erano più, bisognava andare in curva. Che si fa? Chiesi ai ragazzi. Si decise di andare lo stesso. Quando siamo stati in curva, nel settore Z, abbiamo capito che la situazione era un po’ agitata. Gli inglesi ci tiravano di tutto, si vedeva chiaramente che prima o poi ci avrebbero assalito. Roberto e i miei nipoti mi sistemarono dietro un pilone, che già l’anno scorso a Basilea avevo rischiato di essere travolto dalla folla. Poi mi diedero da tenere le loro borse. Gli inglesi pressavano (…) Vidi il cancelletto che portava in campo, rimasto aperto per far defluire i primi inglesi che avevano invaso il nostro settore. Quando stavo per raggiungerlo uno di loro alzò su di me una spranga. Io continuavo a tenere le borse, non so neanche il perché, le alzai per ripararmi la faccia. Passò fra noi due un terzo tifoso, fu lui a prendere il colpo. Io mi ritrovai all’ingresso, indeciso se entrare… poi vidi un idrante e decisi di salirci sopra, per farmi vedere dai miei. Agitavo la sciarpa che avevo tolto dal collo di Roberto prima che cominciasse tutto. Da quel punto la visuale era orribile. Decisi di ributtarmi nella calca. Mio nipote mi vide e urlò: vieni, Roberto è grave. L’aveva trovato lui, riverso, le spalle agli inglesi. Non voglio mercanteggiare su mio figlio, ma tanti testimoni mi hanno detto che stava facendo la respirazione bocca a bocca a quel bambino di Cagliari (…) Mio figlio era grande e grosso, aveva centootto di torace (…) Non l’avrebbero travolto tanto facilmente. Mi sembrava che gli battesse il cuore, invece era la mia tempia che martellava sul suo petto. Strappai la bombola d’ossigeno dalle mani di un militare, ma lui disse che non la sapeva usare. Non so quanto sono rimasto abbracciato a mio figlio (…) Tornarono dopo un po’ e mi portarono via di peso. Allora telefonai all’ambasciatore e lui mi disse di seguire la salma all’ospedale militare. Il tempo di arrivarci e gli avevano rubato la catenina e la fede. Un vigile del fuoco mi spiegò che la fede gliel’avevano tagliata per il riconoscimento. I documenti, infatti, erano nella tasca del giubbotto, scomparso nella ressa. Ma nella fede c’era scritto solo la data del matrimonio. E mio figlio aveva già attaccato al piede il biglietto con nome e cognome, riconosciuto chissà come e chissà da chi (…) Quando Roberto è arrivato ad Arezzo, era scoppiato il caso dei cadaveri scambiati. Hanno aperto tutte le bare (…) Mi sono ricordato che a Bruxelles i medici non volevano completare le autopsie perché le autorità non pagavano gli straordinari… Dentro ho la rabbia per quelli che sono responsabili e nessuno li tocca: l’Uefa, il governo belga, quelli che hanno venduto quei maledetti biglietti. Perruquet (presidente dello Juventus Club Torino, ndr) stiamo cercando di bacchettarlo. Ho la delusione di chi non trova né appoggi né conforto. La Nazione mi ha fatto pagare 150mila lire per i ringraziamenti fatti alla città di Arezzo dopo i funerali… Il grazie è tutto per questa città, me lo lasci fare, se lo merita. L’USL ha raccolto da sola più soldi di quanti ne siano arrivati in assoluto. Vogliamo intentare una causa penale: sarà lunga, costosa, difficile, ci metteranno il bastone fra le ruote, ma non molliamo. Vede quei quadri? Li ho fatti io, sa, mi dilettavo a dipingere. Adesso non ho più tempo, fra studi legali e bambini. Faccio il papà, io che aspettavo solo di fare il nonno”.
Un anno dopo Otello Lorentini, presidente dell’“Associazione tra le famiglie delle vittime di Bruxelles” che ha contribuito a creare, sa che la battaglia per la giustizia sarà ancora lunga e dura, così come quella per estirpare la violenza dagli stadi di qualsiasi categoria: “Il nostro scopo è quello di contribuire in maniera concreta a combattere il fenomeno della violenza in ogni stadio, da quello più grande al più piccolo dei campi di periferia. Non sappiamo quali risultati otterremo, ma certo è che vogliamo sensibilizzare tutti nei confronti di una grossa piaga della società, contro l’indifferenza che si sta manifestando in Belgio a un anno dal massacro (…) Questi (gli inglesi, n.d.a.) erano un anno fa a Roma per un’altra finale di coppa: ma all’Olimpico erano state prese tutte le precauzioni, al contrario che a Bruxelles, il cui stadio era ben più pericoloso. Responsabilità esistono quindi da parte delle autorità di polizia, del borgomastro e del ministro degli Interni. Noi vogliamo che vengano riconosciute penalmente, anche se sarà difficile applicare in sede civile l’eventuale sentenza di colpa. Ma questo è il modo più concreto per opporci al tentativo di dimenticare l’orrore di quella sera e di combattere, quindi, ogni episodio di violenza”.
Francesco Caremani