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Questo Napoli, unica voce moderna in una città che sta facendo dell’orgoglio il proprio business

Questo Napoli, unica voce moderna in una città che sta facendo dell’orgoglio il proprio business

È stata una stagione meravigliosa.

Senza nessuna ambigua ipocrisia si è presentata completamente a nudo nel preliminare agostano. In quei centottanta minuti si è evocato, riga per riga, quasi come in un coro tragico, tutto il cammino del Napoli di questi mesi: l’ipotesi di subire, crescendo, uno strappo troppo violento; le ambizioni che si accavallano e finiscono col sovrastarti; le gambe portate avanti solo a strattoni violenti; le pause di interminabile sfiducia; poi la discesa vertiginosa a velocità quasi insensate; l’esperienza della paura che passa; di nuovo il tonfo violento; ed il timore di tornare in una casa che non ti riconosce più. In tutto questo percorso, che il Napoli ha ciclicamente seguito decine di volte durante l’anno, questa squadra non ha mai mentito o lottato per fingere di essere qualcosa di diverso da sé. Non si è nascosta, non si è schermita, anzi ha aperto le proprie viscere al pubblico dal primo minuto, proprio per dichiarare ad alta voce: “Noi siamo così”, alla ricerca dei giusti compagni di viaggio nel tentativo di crescere, forse al di là dei propri mezzi e le proprie forze, in un folle ma necessario altalenarsi di gioco e risultati. Come si può non lasciarsi trascinare dalla passione di un gruppo di uomini che si lancia in avanti, quasi oltre il proprio destino? E come si chiamano questi se non coraggio e volontà quasi disperata di conoscere i propri limiti una volta per tutte e di giocarseli, senza peli sulla lingua e con un filo di incoscienza, fino all’ultimo giorno della stagione? Vincendo insieme e perdendo insieme? Non vi hanno illuso, non si sono risparmiati, hanno lavorato su se stessi – mi chiedo, dunque, di cosa vi lamentate stavolta, con questa litania di mammolette e questa aria da vergini spose tradite sull’altare e travolte dallo scandalo?

Nella nostra città, la nuova generazione di una volta ha lavorato a farsi largo tra i luoghi comuni che la generazione precedente aveva costruito a difesa delle proprie case – i soli, i mari, i mandolini. E’ stato un cammino non privo di stenti, ma anche pieno di arte nuova e viva. La generazione odierna quei luoghi comuni li ha spolverati, ripassati a lucido, deificati e riposti sugli altari. Sono così spuntati maestri che insegnano ai propri discepoli imberbi ad inorgoglirsi di cose per cui essi non ha nessun merito apparente. Come se nella vita ci si potesse gonfiare il petto per un numero indovinato su una ruota del lotto, si crescono gli orgogliosi del lungomare, dei suoi scogli, delle patelle ad essi avvinghiate, dei pesci e delle maruzze, e quando la flora e la fauna marina ricolma d’orgoglio è terminata c’è chi si è riscoperto orgoglioso del male della città, del suo ruolo spietato, della sua faccia più infame. Il business più grande della Napoli del duemilaquindici è l’orgoglio. Si raccatta ovunque a buon mercato, muove fiumi di interessi, giacché non costa niente – come tutto ciò che è niente – ma fa sopravvivere tanta gente perché è l’essenza di ogni controriforma: l’orgoglio lascia vivere sereni i padri perché istruisce i figli a giacere tranquilli come agnellini.

Su questo teatro, la squadra del Napoli di quest’anno ha suonato completamente fuori chiave. Forse l’unica voce moderna in città. Ci ha ricordato cosa significhi camminare nel mondo avendo scelto il sud come proprio spazio. Perché mentre non esiste nessun orgoglio nell’essere napoletani, ne può esistere certamente uno nello scegliere di diventarlo. Differentemente dalle mammolette dell’orgoglio, diventare del sud significa sposare la causa più debole e decidere di provare a non soccombere. Provare. Tentando, con costanza, qualche volta ci si riesce. È una gran rottura ma si è in ottima compagnia: oltre agli undici azzurri che vengono da una città con dodicimila euro di reddito pro-capite e sbancano in coppa la squadra tedesca seconda in classifica della città che quel reddito medio ce l’ha assestato su livelli otto volte superiori, si incontrano anche tutti quelli che sono nati e cresciuti nella parte derelitta di un qualunque universo umano e scelgono di non subirlo con la storia dell’orgoglio, su su fino a incrociare i più promettenti maestri di questa disciplina tra i superstiti dei relitti del mare che piovono sulle nostre coste, donne e uomini del sud che hanno deciso di non subire il proprio tempo ma di muoversi, ad ogni costo. Il Napoli di quest’anno, sull’altalena di questa meravigliosa stagione, sta in questo altrettanto meraviglioso girone infernale.

“Da troppo tempo la cerco [la mia isola]. Tu non sai cosa sia avvistare una terra e socchiudere gli occhi ogni volta per illudersi. Io non posso accettare e tacere”. Questo diceva Ulisse a Calipso, secondo le parole di Pavese. Oggi, che sono certo Ulisse avrebbe scelto la maglia jeans della Europa League se avesse potuto, quel racconto mi sembra chiaramente il dialogo tra un tifoso del Napoli ed uno di una qualunque potenza calcistica del pianeta. Perché cosa definisce, la frase dell’eroe, se non l’essenza del diventare napoletano, dell’essere sobbalzato all’impazzata nel tentativo di domare dei cavalli imbizzarriti ed usarli per uscire dal buio, almeno per cinque minuti? Certo, è una strada stracolma di dolore e di illusioni, di finali toccate e non viste, di occasioni guadagnate e lasciate al vento, ma è forse meglio sedersi al tavolo degli immortali con Calipso a contarsi le Champions vinte e crogiolarsi nella propria rotondissima erre moscia?

Ecco La erre moscia. L’altra faccia dell’orgoglio. Ha fatto più vittime il rotacismo, nei decenni italiani, di tutti gli errori arbitrali messi assieme. La erre moscia, in Italia, è assurta a presunzione di innocenza e garanzia di buon costume. Ed ha convinto tutti, tanto che quando la nostra squadra, sporca e vinta, di fronte a allenatori, giocatori, dirigenti, persino intere società calcistiche erremosciste e in bancarotta, ha detto che quel modo di giocare ostruzionistico era simile al letame, i napoletani dell’orgoglio hanno gridato che ad avere ragione erano i nostri avversari, così educati. E che “non si sputa nel piatto dove si mangia”, la frase madre che racchiude tutta la visione del mondo di chi vuole che gli uomini rimangano divisi in signori e pezzenti, in sudditi e sovrani. Perché puoi anche guadagnarti quanto dovuto, ma non puoi dimenticare che sei un ospite. Perché orgoglisti ed erremoscisti servono lo stesso padrone: lo status quo. Non cambiamo niente e sopravviviamo tutti.

È per questo che lo stadio è rimasto vuoto così a lungo. E mormora, non trascina, si rivolta, sta in silenzio. Perché questa squadra, di questi uomini, ha corso più avanti della città, troppo avanti e troppo veloce. Ha richiamato i suoi cittadini alle proprie origine vere, libertarie. Lo spirito di Napoli non è quello che spinge a rimanere chiusi e raccolti, con la paura del mondo, a guardarsi un lungomare – che è bellissimo, certo, ma, per dire, anche le rovine di Tulum a picco sullo specchio caraibico messicano non sono malaccio. Lo spirito di Napoli non è nei luoghi (che, per caso, si trovano da queste parti) ma, come sempre, nelle persone che li hanno calcati. È piuttosto sulle tempie ammuffite del teschio con la sigaretta tra i denti, al chiuso della sua teca nel Cimitero delle Fontanelle – il lampo di luce di un passante in un purgatorio in terra, che di racconti sulla giustizia dell’aldilà ormai non se ne ammocca più ma non si abbandona alla comoda disperazione, neppure su milioni di ossa di disperati.

Essere napoletano è una sciocchezza del destino. Ma scegliere di diventarlo richiede grande talento. E’ una strada sconnessa. E questa squadra, quest’anno, ce l’ha ricordato, conducendoci per vittorie splendenti e silenzi infernali. Tutto sempre ballando sul confine, come accade nel sud. Se non ce la fate a sostenere questo saliscendi, sappiate che il mondo è pieno di posti più o meno simili tra loro nei quali potreste svernare e vedere il vostro orgoglio riconosciuto. Perché, come tutti i luoghi che devono fare i conti con i propri limiti, anche Napoli “Non è un paese per vecchi”. Come confida, in una mirabile scena di chiusura nel film dei fratelli Coen, lo sceriffo Tommy Lee Jones a sua moglie, in quel cantilenante ed inconfondibile accento del sud – sempre al sud, sempre dal sud. La moglie lo rassicura che non lo prenderà in giro, anche se quelli che sta per raccontare fossero sogni troppo strampalati. “Hai sognato qualcosa di interessante?” gli chiede. “I sogni sono sempre interessanti per chi li fa”. Ma bisogna prima avere il coraggio di farli e raccontarli.
Raniero Virgilio

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