Il mio Napoli-Cesena 3-2
Quanto può influenzare la scaramanzia nella vita di una persona? Ma, soprattutto, quanto può influenzare nella vita di chi vi è intorno?
Lunedì mattina, alle Poste.
Soleggiato. Temperatura: circa 27 gradi. Umidità: circa 70%.
Privo di qualsiasi desiderio di parlare, dialogare e conversare a causa dell’ennesima panciuta bolletta da pagare, dopo aver recuperato il numero d’attesa, mi è venuto accanto un vecchio amico con cui spesso in passato ho condiviso la passione azzurra.
Prima dei convenzionali saluti e dei convenzionali discorsi che si fanno tra amici, insomma, prima dei “come stai? come sta la bambina? E che caldo assurdo in questi giorni”, Luca, con in mano il numerino successivo al mio, mi ha guardato torvo ed è andato in picchiata sull’argomento con un “che fine ‘e mme che abbiamo fatto, no?”. Ho annuito per compicerlo, mi sono morso un labbro e sconsolato senza parlare ho aperto leggermente le braccia.
“Non c’è niente da fare. Non vinceremo mai niente, no?” ha proseguito. E io tra i denti, costretto: “mal che vada, abbiamo vinto la SuperCoppa a Doha”.
“Doha?! Non me ne parlare. Per me Doha è un incubo”. Notando la mia incredulità, ha aggiunto: “No, niente. Poi un giorno ti spiegherò, forse”.
“Però, non è ancora finita. Se vinciamo stasera, se vinciamo a Torino, se la Lazio supera la Roma, se…se…” ha completato la sua invidiabile, quanto urticante tabella che ci avrebbe, a suo dire, portato direttamente al secondo posto in classifica, ma inesorabile ha aggiunto: “però, io comunque non ci credo. Stasera tanto perdiamo, no?”. Sempre meno propenso al dialogo, mi sono espresso con due occhi smarriti e un inarcamento accentuato delle sopracciglia e della bocca.
Per altri dieci minuti abbondanti, durante i quali gli altri utenti delle Poste hanno dato luogo al classico viavai agli sportelli, ha proseguito il suo monologo contro il presidente, l’allenatore, i giocatori, il direttore sportivo, lo staff medico, i tifosi, i giornalisti fino a smadonnare per poi calmarsi e chiudere: “ah, ho incontrato il Minao. Mi ha detto che non andrai allo stadio a causa di un appuntamento improrogabile nel tardo pomeriggio. Allora è deciso, stasera vieni da me. Tv e pizza. Ora avverto Mariella (la moglie). E non ti azzardare a dirmi di no. Me l’avevi promesso. Niente scuse… E la bambina come sta? Che caldo assurdo che sta facendo, eh?”.
In quel preciso momento è scattato lampeggiando sul display delle Poste il numero rosso 37. 37, il mio numero.
Mi sono voltato di scatto verso Luca, maledicendo la bocca larga del Minao, e gli ho detto: “no, no, aspetta un attimo. Pago la bolletta e ne riparliamo. Un attimo solo”.
Un attimo troppo lungo. Mi sono voltato di nuovo, dopo essermi cavato l’ennesimo molare in favore dell’Enel, e Luca non c’era più.
Luca è un amico d’infanzia che vive nel mio stesso paese. In comune abbiamo la passione per le escursioni e per il Napoli. Ciò che invece ci differenzia è il suo modo estremamente critico e negativo di vivere il tifo. Qualsiasi cosa accada non riesce mai a trovare un appiglio per gioire. Ha insomma quella innata capacità di scovare difetti e negligenze che a tratti lo rendono insopportabile. Caratteristica che mostra esclusivamente nel calcio, o meglio, nel Napoli. Nella vita è invece socievole ed allegro. Ci incontriamo spesso e spesso mi ha chiesto di vedere una partita insieme. Evento difficile, visto che allo stadio non viene più da quando si è sposato, e reso ancor più arduo visto che le partite le guarda esclusivamente a casa sua o da suo padre. Mentre io, salvo rarissimi casi, sono sempre allo stadio nelle gare interne o impegnato con la mia banda a casa del Minao nelle trasferte.
Rarissimi casi, appunto. Lunedì, mio malgrado, uno di questi casi si è materializzato.
Venti minuti più tardi, mentre mi asciugavo la fronte per l’assurda canicola di questi giorni, Luca mi ha telefonato al cellulare: “scusa se sono scappato. Mi ha chiamato mia moglie e ho fatto una corsa da mia suocera a causa di un mancamento. Sarà per il caldo. Mariella resta lì anche stasera. Per cui la partita la vediamo da mio padre. Già sa. È felicissimo. Vengo a prenderti sotto casa alle 20.30. Ah, niente pizza. Cucina mia madre. Ciao e Forza Napoli”.
Nemmeno il tempo di abbozzare una scusa che ha attaccato. Il pensiero di trascorre due ore ad ascoltare i suoi lamenti contro Lopez, Jorginho e Koulibaly non mi allettava per niente, ma Luca è sempre un caro amico e il padre sembra essere una persona assai simpatica. Inoltre, a detta di tutti, la madre è una gran cuoca.
Lunedì sera, sotto casa di Mario (il papà di Luca).
Cielo semicoperto. Temperatura: circa 26 gradi. Umidità: circa 90%.
Siamo arrivati con leggero anticipo. Da casa mia a quella di Mario in auto ho dovuto sorbirmi: “Hai sentito le formazioni? Ha fatto fuori Higuain e Insigne. Questo (Benitez) è pazzo. Quei due dovrebbero giocare anche con la sedia a rotelle. E poi Jorginho, ancora Jorginho? Perderemo anche stasera, me lo sento”. L’esordio non poteva essere dei peggiori, ma solo perché non conoscevo ancora il prosieguo. “Come sta la bambina? E che caldo assurdo sta facendo, eh? Ah, ho dimenticato di dirti una cosa: mio padre è un pochino scaramantico. Spero che non sarà un problema per te”. Quest’ultima frase mi ha messo addosso una leggera ansia, ma un po’ di riti e manie non hanno mai fatto male a nessuno. Ho pensato…
Pur non essendoci mai parlati di persona, Mario si è mostrato immediatamente amichevole, sorridente e cordiale, mentre dalla cucina proveniva un profumino niente male. Dopo poco, la signora Franca (la mamma di Luca) è uscita e mi si è presentata sempre col sorriso e le maniere più adatte ad una padrona di casa. I soliti convenzionali saluti e i convenzionali discorsi che si fanno tra persone che si sono appena conosciute “come stai? Come sta la bambina? Stasera vinciamo?…”. Non un accenno però al tempo e all’assurdo caldo di questo periodo. Strano.
Mario ci ha fatto strada verso il salotto che si trova dietro una porta sopra una piccola rampa di scale in legno che partono dalla cucina. Sono entrato e…il buio, o quasi. Mi si è mostrata una stanza completamente serrata. Finestre chiuse e persiane abbassate e in fondo, su un tavolino, un piccola fiammella in cima ad una candela. Praticamente, l’unica fonte di luce. Spaesato e frastornato ho atteso che si accendesse un lampadario, una torcia o una fiammifero. Invano.
“Dai papà, apriamo un po’ la finestra, qui non si respira. Smettila con queste follie!” ha detto Luca. E Mario categorico: “Non ricominciamo. Ma è mai possibile che ogni santissima volta devo dire sempre le stesse cose? No, no e no. Sono 30 anni che le partite le guardo così. La partita del Napoli è una messa solenne, quante volte lo devo ripetere? E non mi annoiate!”.
E Franca, che non vedeva l’ora d’intervenire: “Luca, ma perché ti comporti così? Lo sai com’è fatto tuo padre. Sembra che lo fai apposta. Qua non ti vediamo quasi più e quando vieni lo fai intossicare. Non protestare sempre, che male c’è a tenere le finestre chiuse? Mica fa poi questo gran caldo!?”.
Detto questo, Luca, accigliato, non ha risposto e Mario si è apprestato ad accendere la tv dando finalmente una flebile ed azzurrognola visibilità alle sedie, ai divani, al pendolo, ai quadri e al camino del salotto che la candela non aveva potuto mostrare. Si è voltato verso di me e ha detto: “mio figlio ti avrà sicuramente avvertito. Durante le partite del Napoli ho le mie manie e a un povero vecchio non si possono non assecondarle. Ma prego, accomodati. Siediti dove vuoi. Meglio lì, sul divano, però. Porta bene. È testato”.
Mi sono seduto e ha proseguito: “anni fa, in questa stanza ascoltavo le partite in radio, in religioso silenzio, in completa solitudine e al buio. Questo luogo è sacro per me. Con l’avvento delle payperview ho resistito per qualche tempo ancora con la radio, poi ho abdicato e anch’io mi sono lasciato sedurre dalle immagini e dalla compagnia, soprattutto di mio figlio. Ma non ho voluto perdere i miei rituali e le mie abitudini. In fondo un po’ di scaramanzia non ha mai fatto male e mi rende più sereno. Questa stanza è piena di simboli. Ci sono oggetti, cimeli e reliquie che ripercorrono la mia passione di decenni per la squadra azzurra. Se vieni un altro giorno te li faccio vedere”. Con questa ammissione ho compreso quindi che il buio e le finestre chiuse facevano parte delle sue pazzie scaramantiche e mentre continuava a spiegare mi è passato davanti, si è abbassato, e ha iniziato a muovere le mani dietro la televisione provocando rumori sinistri. Pochi istanti dopo è uscito dal buio pesto e, trionfante, con un ciocco di almeno due chili in mano, ha invitato la moglie a prendergli i giornali.
Franca: “Mario, se vuoi, te lo accendo io”.
Mario: “ma allora proprio non volete capire. Sono millenni che accendo il caminetto. Le partite del Napoli si guardano col caminetto acceso. E sono io a doverlo accendere, è un iter solenne. Tu mi devi solo passare i giornali”. E rivolto verso di me: “faccio ‘sta battaglia ogni volta. In quel 3-1 a Torino dell’86 ascoltai la partita con il camino acceso. Ti pare normale che ancora mi facciano storie? E non vincevamo lì da più di 30 anni. Il camino deve essere acceso. Punto. È testato”.
Esterrefatto, sgomento, basito, ho assistito ad una scena che nella mia vita mai. Il 18 maggio, con quasi 30 gradi di temperatura e quasi il 90% di umidità e quel salotto, chiuso come una galera, stava per trasformarsi in una dependance del Sahara. Non volevo crederci. E invece Mario ha veramente appiccato il fuoco e soddisfatto si è girato verso il figlio con aria interrogativa.
Luca, colpito da quell’occhiataccia: “no, papà, non mi guardare. Non mi scocciare. Io la coperta sulle gambe non la metto. Tu sei da internare, io no”.
Praticamente, cosa che mi è stata spiegata a fine partita, e da lì quel “Doha è un incubo per me” della mattina alle Poste, durante i rigori, Luca aveva sulle gambe un plaid di lana merinos e Mario ha preteso dal figlio questo arricchimento scaramantico durante tutte le partite successive. Ma Luca non sempre lo ha assecondato. “Col Dnipro ti sei rifiutato e sappiamo com’è andata a finire. Col Milan ce l’avevi e sappiamo com’è andata a finire. Ora fai come vuoi, ma sai come la penso”.
Luca: “papà, ma io vengo ogni tanto. Vengo per farti compagnia, per cenare insieme e non per fare la sauna. Va bene, al camino c’ho fatto l’abitudine, anche alle finestre chiuse, ma il plaid è un sacrificio che non puoi chiedermi. Doha era a fine dicembre. Sta partita sta diventando un supplizio e jamm”.
Franca che prontamente ha colto la palla al balzo: “vabbé Luca, come la fai pesante. Potresti dare un po’ di soddisfazione a tuo padre. Tu qui non ci vieni quasi più. In fondo che ti ha chiesto? Che sarà mai? Mica fa così caldo?”.
Luca, sempre più accigliato, si è zittito e intanto, finalmente, è iniziato il collegamento dal San Paolo.
Luca, sempre più accigliato, si è zittito e intanto, finalmente, è iniziato il collegamento dal San Paolo.
Mario da funambolo della parola si è improvvisamente spento. Cioè, non ha proferito più una vocale. È affondato nella sua poltrona (di fronte al camino), ha preso dalla tasca un paio di occhiali azzurri, dal portafogli una figurina plastificata di Ciccio Romano (“il vero artefice di quello scudetto”) e l’ha poggiata sul tavolino, ha iniziato una sorta di preghiera incomprensibile, alzando gli occhi e le dita al cielo (“perché Cavani è Cavani”), si è piazzato un paio di enormi cuffie nere in testa ed è entrato in trance al fischio d’inizio. Le cuffie sempre spiegatomi a fine partita, sono nate per ricreare la stessa atmosfera silenziosa della radio che fu. A mio avviso, le indossa per evitare di ascoltare i commenti irritanti del figlio. Sta di fatto che Mario si è mummificato. Avrei potuto pensare ad una statua di cera se non fosse che ogni 15 minuti esatti di partita si è alzato, mi è passato davanti, ha frugato dietro il televisore ed ha alimentato soddisfatto il fuoco, oltre a sostituire la candela morente sul tavolino. Avrei potuto pensare ad una imbalsamatura se non fosse che al primo gol di Defrel si è voltato ferocemente di scatto verso Luca il quale intanto inveiva contro Andujar, Koulibaly, Jorginho, Benitez, Pecchia e De Laurentiis per poi rispondere senza che gli fosse posta una domanda specifica, se non quello sguardo di rimprovero: “no, è inutile che ti giri, il plaid non me lo metto”.
Intanto, mentre le temperature della stanza raggiungevano vette equatoriali, l’incazzatura per lo svantaggio ha iniziato a manifestarsi e con essa la conseguente e logica mia voglia di fumare. “Ma come si fa? Qui nessuno fuma e non posso nemmeno uscire un attimo fuori al balcone perché Mario mi lincerebbe. Come faccio?” ho pensato tra me e me.
Ho fatto un cenno con le due dita a Luca per sapere, visto che da ex fumatore incallito (ha smesso dopo essersi sposato) avrebbe dovuto comprendere il mio stato, ma lui, all’altro estremo del salotto, mi ha fatto capire di attendere la fine del primo tempo. Devastante.
Fortuna che Mertens e Gabbiadini hanno in pochi istanti riportato il sereno dentro di me e la voglia di nicotina è temporaneamente scemata. Luca, dal canto suo, ha sfoderato il suo proverbiale ottimismo: “vabbuò, stiamo giocando contro i morti. Quei gol li avrei fatti anch’io. Ma come si fa a giocare con Koulibaly, Jorginho, Albiol ecc ecc? Se il Cesena avesse solo un paio di giocatori migliori, ora staremmo perdendo…”. Subito accontentato da Defrel che in chiusura di tempo ha pareggiato e Luca: “è una vergogna. Ma dove andiamo con questa gente? Tenere poi Higuain e Insigne in panchina è un delitto. Devono giocare anche con la sedia a rotelle. Questo non l’ha capito Benitez? È un pazzo”.
Mario, che intanto si era tolto le cuffie: “scusa, ma giovedì dicevi lo stesso di Mertens e Hamsik, mica possono giocare tutti contemporaneamente?”.
Finalmente, alle 21.45, ho sentito la prima cosa sensata dell’intera serata.
Luca era pronto per rispondere ma è stato stoppato dalla voce di Franca proveniente dal piano inferiore: “venite a prendere il piatto. È pronto”.
Più che fame, avevo una irrefrenabile voglia di sigarette e ho cercato un pertugio per poter soddisfarla, ma non c’è stato modo. La signora Franca ci ha più volte esortato a scendere in cucina e quindi non c’è stato il tempo.
Niente pizza, diceva. E cosa c’è di più indicato da mangiare in un clima torrido tipico delle coste qatariote? Una dietetica e fresca lasagna napoletana. Un piatto grande quanto un disco volante da consumare ovviamente in un infernale salotto, tra le luci soffuse di candele e televisione, perché guai a perdere un solo secondo di partita. Non ho avuto nemmeno il tempo di pensare. Sarei potuto scendere in strada per fumare e prendere un po’ d’aria, ma tutto mi si è presentato velocemente: la voce della signora Franca, la lasagna e i discorsi calcistici tra familiari hanno coinvolto anche me.
Luca: “questi si preoccupano del posticipo del derby?! Si devono vergognare invece. La Champions l’avremmo dovuta conquistare a Empoli, Palermo, Verona e Parma. Non con la Juve e grazie al derby. Mentre intanto pareggiamo col Cesena”.
Mario: “hai ragione, ma è scorretto non giocare in contemporanea. Conoscere il risultato di Torino avvantaggia le romane. A prescindere. Ma porta male parlare del futuro quando la partita di oggi non è ancora finita. E vai a prendere il plaid!”.
La seconda cosa sensata che ho ascoltato durante la serata.
La partita è poi ripresa con le stesse modalità del primo tempo. Unica variante, una lasagna di mezzo metro in un piatto sulle mie ginocchia. Nel mentre, esausto per quella pietanza immensa e per la calura, ho pensato di spaccare il vetro della finestra e bucare le persiane, non prima di aver innaffiato e spento il fuoco del camino, per poter finalmente fumare, ma Franca ha richiamato il figlio: “Luca scendi, vieni a prendere i secondi”.
“I secondi?! Ma cosa succede? È un matrimonio? Aiuto!” mi son chiesto. La risposta era riposta nei piatti che Luca ha provveduto a portarmi. La pizza, diceva. E cosa c’è di più indicato da mangiare in un’atmosfera che potrebbe viversi nel Gobi o nel Gabon a Ferragosto? Un leggerissimo spezzatino di carne e patate con parmigiana di melanzane come contorno. Il tutto annaffiato da una damigianella di rosso locale indicato nelle cene natalizie o in qualche baita di montagna.
In seguito mi è stato detto che le pietanze sono sempre le stesse da 30 anni e durante le partite del Napoli non c’era possibilità di variazione del menù. Per scaramanzia. È testato.
Stremato e con lo stomaco che mi implorava pietà, l’unico momento in cui mi sono risollevato è stato quando Di Carlo ha fatto entrare Lucchini e Mertens ha siglato il 3-2 venti secondi dopo il suo ingresso. Con lo stesso Lucchini a tenere in gioco il piccolo belga.
Con una maglia ormai divenuta blu (in origine celeste) a causa della sudorazione in quella camera a gas e della digestione di quel buonissimo mix di bombe caloriche, ma pur sempre bombe, e una voglia ormai irrefrenabile di fumare, c’è stata la chiusura benaugurante di Luca: “tutto inutile. Sabato perderemo. Pure se la Juve gioca con la Primavera”. La chiusura di Mario: “sei il solito disfattista. Ma gioisci per dieci minuti, sogna, illuditi almeno un attimo della tua vita. Ma che razza di tifoso sei? Porta pure sfiga fare così. A volte credo che tu non sia mio figlio, ma il figlio di Auriemma. Ma intanto – rivolto a me – vuoi un bel bicchiere di vino cotto per digerire? Io lo prendo sempre. Porta fortuna. È testato”. E la chiusura di Franca: “ormai è irriconoscibile. Da quando ha dimenticato questa casa è diventato acido e scostante. Ma intanto – rivolto a me – vorresti una bella fetta di pizza di crema? L’ho appena sfornata”.
Quando ormai ero prossimo alla liquefazione, e alla follia, mi sono stati spiegati tutti i particolari testati delle manie paterne. Il pendolo fermo alle 9.35 perché, quel giorno di Stoccarda- Napoli, l’orologio si fermò inspiegabilmente (“queste lancette immobili ieri hanno compiuto 26 anni”); la candela perché nell’ultima vittoria a Torino, 6 anni fa, per motivi imprecisati era accesa; le cuffie, il buio e il plaid sono solo alcuni esempi. Ho abbandonato le spiegazioni, i dialoghi tra padre e figlio e dopo i convenzionali ringraziamenti per la piacevolissima e “fortunata” serata, ho rifiutato il passaggio che avrebbe voluto darmi Luca e ho chiesto di tornare a casa a piedi. Principalmente per digerire e per fumare. Mario ha insistito e io non sapevo più come convincerlo. Ci sono riuscito solo dopo dieci minuti di contrattazioni estenuanti: “vi ringrazio sinceramente, ma vorrei andare a piedi. Lo faccio da sempre. Vorrei pure fumare una sigaretta. Di tanto in tanto me ne fumo una. Ma soprattutto, per scaramanzia. È testato”.
PS: stamattina mi ha chiamato Luca: “mia suocera sta bene. Mia madre era contenta perché sei una buona forchetta. Mentre mio padre ieri sera era felicissimo della vittoria e della nostra presenza a casa sua. Ci vorrebbe lì anche per la partita contro la Juve. Mi ha detto che porti bene. Che fai, vieni?”
Forza Napoli Sempre
La 10 non si tocca.
Gianluigi Trapani
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