Ho diciotto anni e mi consento di dire che sono un vero tifoso del Napoli. Dico ciò perché, a differenza di tanti, nel possibile ci sono stato sempre. Ricordo quei Napoli-Cittadella, Lanciano, Frosinone, Foggia, le lacrime con l’Avellino. Avevo 8 anni, quel Napoli-Cittadella era il mio regalo di compleanno, che era il giorno dopo, il 27 di settembre. Ero piccolo e le difficoltà hanno creato attaccamento, un attaccamento difficile da “accontentare” per chi vive lontano dalla sua terra, per chi è a 250 chilometri di distanza, chi vive in Puglia e precisamente a Barletta, per chi però non si stanca di gridare al mondo di essere napoletano.
Poi si cresce, si inizia ad essere indipendenti, e dall’era Benitez, tra pullman, metropolitane e mezzi pubblici, sono abbonato. Salto sì e no tre-quattro massimo cinque partite in tutta la stagione. Perché per me esserci è la cosa importante, ed è questo il punto. Sono diventato così attaccato perché ne vedevo ogni domenica cinquantamila più attaccati di me, ho imparato il sacrificio quando in un Napoli-Frosinone di Coppa Italia conobbi cinque ragazzi residenti a Roma che fieri ci raccontavano la loro storia, una storia di chilometri, sempre uguali a cadenza settimanale, non per una pizza o una sfogliatella, ma per salire quelle scale e per andarsi a sedere su quei sediolini fatiscenti e scomodi.
Beh che dire, il napoletano era il simbolo di attaccamento alla maglia, di amore, il napoletano non si permetteva di fischiare o di disertare perché era innamorato, e l’amore si sa va al di là di tutto in quanto irrazionale. E non fa niente che domenica saremo quindicimila o qualcosa in più o in meno. L’anno scorso ci ho fatto l’abitudine in Europa League, almeno noi quindicimila siamo realmente innamorati. Sempre e comunque forza Napoli.
Davide Bellomo