Di ritorno da Torre Annunziata ho ancora negli occhi e nel cuore l’immagine di quella marea di ragazzi che, seguendo la Mehari verde, urlano Giancarlo uno di noi e invocano certezze per il futuro. Una scuola più formativa, un lavoro più a portata di mano. Un futuro non contaminato dal compromesso e dalla mediazione, cioè “pulito”. Come lo chiedeva Giancarlo Siani ancora alla ricerca di un contratto. Rivedendo la scena di quel corteo che ha attraversato uno dei quartieri a più alta densità criminale del mondo, mi è venuto immediatamente da pensare alle parole di papa Francesco che a Obama e agli americani ha detto: vi parlo da figlio di migranti. Ecco, Giancarlo e quei giovani vivono la stessa precarietà del Pontefice: bisogna tirarli fuori dai guai, da soli non ce la fanno, non tutti hanno la forza di Francesco.
E’ come se un chiodo sottile avesse perforato il cervello del cronista: che fare, che risposta dare a quei ragazzi che come il cronista assassinato trent’anni fa sognava un mondo migliore e si è lasciato uccidere per inseguire il suo ideale? La mia auto, spartana come quella Citroen, corre apparentemente senza problemi. La Mehari di Giancarlo, invece, anche se ha ripreso a camminare, è ferma a quella sera maledetta quando il direttore del Mattino Pasquale Nonno e chi scrive furono avvertiti dal giornale: hanno ucciso Giancarlo. Stavamo assistendo allo spettacolo allestito per la riapertura dell’Anfiteatro Flavio alla Solfatara e in un attimo venimmo scaraventati nell’inferno del dolore e della disperazione. Consapevoli di non essere riusciti ad evitare la barbara sentenza di morte eseguita dalla cupola del potere criminale. Poi, quando riuscimmo a ragionare con un minimo di lucidità, ci fu subito ben chiaro che la sentenza di morte era stata eseguita perché a quei boss Giancarlo, a bordo della sua Mehari, dava fastidio, perché rappresentava un ostacolo: lui ci sta sempre, ci impedisce di essere padroni del territorio. Chi decise di toglierlo di mezzo sapeva che quel ragazzino con l’aria da impunito era più informato degli altri cronisti e, forse, in quella occasione, era venuto a conoscenza di qualcosa che rischiava di mandare a monte i loro progetti. I criminali sapevano che quel ragazzo era un giornalista di razza perennemente teso alla ricerca della verità. In questi giorni è stato sottolineato che il suo fosse un contratto da giornalista precario: è vero ma la legittimazione professionale prima ancora che dai burocrati l’aveva ricevuta dai colleghi. Da noi che lavoravamo con lui e che, forse, non lo abbiamo protetto per quanto meritava. E questo è un rimorso che mi tormenta da quella sera maledetta.
Tornando da Torre Annunziata, ero afflitto da questi pensieri che mi procuravano angoscia, ma, d’improvviso, la luce si è accesa ed è venuta fuori un’idea che nella sua stravaganza può rappresentare una cartina di tornasole per verificare le attitudini professionali e soprattutto morali di quanti aspirano a intraprendere la carriera giornalistica o meditino, ahinoi, di partecipare ad una competizione elettorale o di concorrere ad un incarico pubblico che imponga comportamenti irreprensibili. A questi pretendenti al trono – e vengo al dunque – imporrei di salire metaforicamente sulla Mehari verde di Giancarlo Siani e percorrere per alcuni giorni gli stessi sentieri torresi nel cuore della criminalità più spietata. Da soli, seguendo una pista che scotta, sentendoti osservato e preso di mira da quanti ti conoscono e sanno che stai lì per loro, contro di loro. Quanti accetterebbero di fare questa prova e quanti la supererebbero? Pochi, pochissimi, quelli che hanno superato senza patemi l’esame teorico. Chi non è moralmente e culturalmente idoneo va tenuto a debita distanza, solo così sarà possibile fare pulizia negli albi professionali infarciti di nullafacenti e di corrotti. Caro direttore, ti sembra che stia chiedendo troppo? E che la mia sia la proposta di un visionario? Credo di no perché penso che sia giunto il tempo di ritornare al rispetto di quel codice morale e professionale che, quello sì, è un dato costitutivo della nostra professione. Giancarlo Siani credeva in questi valori, si era formato alla scuola della cronaca senza aggettivi che va diritto allo scopo, cioè alla notizia, e non accetta alcun condizionamento. E per questo era diventato un tutt’uno con la sua Mehari verde che era una sorta di seconda pelle. Tutti lo riconoscevano, ma nessuno osava fermarlo. Fino a quando non scattò l’ordine di uccidere ma in quel momento i criminali e la mano che li armò rivelarono la loro debolezza. E diventarono nani con la pistola al confronto del gigante disarmato che li aveva smascherati.
Carlo Franco