Le parole di Arrigo Sacchi sulla mancanza di mentalidad ganadora a Napoli sollevarono non poche polemiche
“Napoli es una ciudad que no tiene una mentalidad ganadora”. La frase è questa qui. Andrebbe scolpita in cielo, come i pensieri di Fantozzi all’indirizzo del megadirettore galattico. L’ha pronunciata ieri Arrigo Sacchi in un’intervista al quotidiano As ed è rimbalzata sui media della città. Come al solito, Napoli è divisa. Sono tanti coloro i quali condividono il pensiero dell’allenatore che i napoletani più hanno odiato. Sono tanti. Più di quanto si possa pensare. C’è una frattura piuttosto netta tra l’immagine che Napoli dà di sé – attraverso opinionisti, giornalisti, esponenti della cosiddetta civile – e l’effettivo pensiero di tanti napoletani (non solo non residenti).
Arrigo Sacchi ha legato questa frase al biennio Benitez e l’ha riportata all’età dell’oro del Napoli, quell’età cui proprio lui assestò un colpo tremendo con una delle sconfitte più cocenti della nostra storia calcistica. «Persino con Maradona Napoli non è riuscita ad arrivare nei quarti di finale della Coppa dei Campioni». Che piaccia o meno è la verità. Che piaccia o meno, trent’anni dopo siamo ancora con la testa perenemmente rivolta all’indietro.
Mentalità vincente. Quella che è mancata come il pane negli ultimi due anni, quando una grossa fetta della città, soprattutto a livello mediatico, ha osteggiato in ogni modo l’allenatore spagnolo. Basti pensare (per fare l’esempio più rappresentativo) a cosa è stato Il Mattino in questo biennio, con sondaggi al primo passo falso, richieste di dimissioni o di licenziamento, fino all’incredibile rivolta contro l’internazionalizzazione nel nome di una benedetta e ritrovata provincializzazione: finalmente a casa.
Benitez, qui lo abbiamo scritto in ogni salsa, è stato rigettato come corpo estraneo dalla città. Ed è vero che tanti napoletani vivono fuori, ed è vero anche che per essere tifosi del Napoli non è detto che si debba essere nati all’ombra del Vesuvio, ma di fatto il cuore della vicenda si svolge qui. E qui è stato un tiro al piccione, al punto da ritenere fallimentare un’annata con un trofeo (la Supercoppa italiana, che mancava dal 1990, ultima grande vittoria del Napoli di Maradona), la semifinale in Europa League (anche questo traguardo mancava da Diego), una semifinale di Coppa Italia (coppetta), il sedicesimo posto nel ranking europeo (traguardi mai raggiunto dalla società fondata da Ascarelli) e un quinto posto (su cui, come ha ricordato De Laurentiis qualche giorno fa, hanno pesato tanto quattro rigori sbagliati).
La reale vittoria di quella che tempo fa definimmo “una certa Napoli” è stato dimostrare – a modo loro – che lo straniero non aveva proprio niente da insegnarci, che noi bastiamo a noi stessi, che ne sappiamo sempre una più del diavolo perché noi siamo i più bravi, i più belli, intelligenti e – va da sé – i più furbi. Perché in questi anni a Napoli sono avvenuti mutamenti importanti. Negli anni Ottanta, quelli di Maradona, a parte il calcio (e la politica) c’era una forte richiesta di evasione dal luogo comune. Napoli era Massimo Troisi, era Pino Daniele, era Antonio Neiwiller, e potremmo continuare a lungo. C’era un fervore culturale che esprimeva la volontà di affrancarsi da un’immagine stereotipata.
Oggi questo non c’è più, pur essendo Napoli una città certamente non piatta dal punto di vista artistico. Ma c’è stato un processo di irrigidimento, di sclerotizzazione. Nessuno può toccare Napoli e la napoletanità. Fateci caso. Prima di arrivare a Dimaro, Maurizio Sarri aveva sempre detto che lui era un napoletano per caso, che lui era e si sente toscano. Com’è giusto che sia. A Dimaro, l’ultima sera, il tecnico ha dichiarato che «in questi giorni di ritiro ho capito che non è un caso se sono nato a Napoli”. E via con i mandolini, avrebbe detto Troisi. Lo stesso Pepe Reina ha fatto dell’amore per la città di Napoli il cavallo di battaglia del suo ritorno. Non ce ne voglia Pepe, ma eravamo qui anche l’anno scorso. Insomma, l’impressione – per me fastidiosa – è che ci trattino come una tribù cui non può essere detto nulla.
E qui torniamo a Benitez. Perché in fondo è stato l’unico che, pur riconoscendo le bellezze naturali di cui godiamo, non ha mai detto: “Siete i migliori del mondo”. Anzi, pur senza probabilmente aver mai saputo chi fosse Monzeglio, si è iscritto nel suo solco e ha detto: “Se volete vincere qualcosa, dovete migliorare e per migliorare dovete cambiare. Dovete smettere di considerarvi diversi”. È la più grave offesa che in questo contesto si possa fare ai napoletani. Cambiare a noi? Noi che abbiamo la più cartolina del mondo? Che siamo il pubblico più caldo dell’universo? Che abbiamo – arieccolo – avuto Maradona? E via coi mandolini.
Ecco che cosa è accaduto nel biennio Benitez. Una chiusura a riccio tristemente sintetizzata dalla richiesta del perpetuo ritiro punitivo dell’anno scorso confluita nell’odierna retorica del sudore. Un processo di autoghettizzazione che sta raggiungendo livelli parossistici. Non sappiamo se sarà sempre così (ci auguriamo di no e nel nostro piccolo lottiamo perché ciò non avvenga). Di certo è accaduto anche domenica sera, quando al primo passaggio a vuoto una discreta fetta di pubblico ha cominciato a rumoreggiare. O in settimana, quando le minacce a De Laurentiis (il cattivo, il pappone, il romano, un forestiero pure lui) sono passate in cavalleria di fronte all’affronto subito per il mancato arrivo di Soriano. De Laurentiis è spregevole come a lungo lo è stato Ferlaino, non a caso spesso contestato nonché oggetto di attacchi violenti di vario tipo.
Avere una mentalità vincente significa saper perdere. Significa saper accettare la sconfitta. Significa saper ingoiare amaro. Significa interrogarsi sui perché di una sconfitta. Significa perdere una finale di Champions dopo aver chiuso il primo tempo per 3-0 e rivincerla due anni dopo contro quella stessa squadra.
Sacchi ha detto il vero, ahinoi. Siamo stati una nuvola passeggera nell’olimpo del calcio. Abbiamo vissuto un solo giorno, come le rose. E viviamo solo di ricordi. Passato Maradona, siamo tornati alla nostra realtà, alla nostra dimensione. E guai se arriva qualcuno che desidera portarci in alto. Non ce la facciamo, non reggiamo la tensione. Diventa il nostro peggior nemico, perché per vincere bisogna avere pure un cuore robusto. E noi non ce l’abbiamo.
Massimiliano Gallo