L’atmosfera era tesa. Come si misura il grado di tensione? Con il termometro dell’esperienza personale ma anche col filtro delle proprie emozioni e sensazioni. Ebbene, quel sabato sera del 20 settembre 2003, cioè 12 anni fa, l’atmosfera che precedeva il derby di serie B Avellino-Napoli era tesa eccome. Lo era perché i tifosi irpini attendevano quella partita da anni: la provincia contro il capoluogo di regione avverte la gara sportiva come occasione di riscatto, ipocrita negarlo. Lo era perché per me era la prima trasferta giornalistica: l’allora capo dello sport del “Roma” Raffaele Auriemma mi aveva chiesto di dare una mano a seguire la partita dal vivo. Lo spirito orgoglioso degli avellinesi si fondeva insomma con la mia adrenalina da “prima volta” lontano dallo stadio San Paolo, seppur per pochi chilometri. Neanche il tempo di salire sulla tribuna (a forma di veranda) del Partenio e dare uno sguardo alla distinta dei calciatori, compresi che ogni possibile emozione doveva essere accantonata in un secondo. Professionalmente per me, si trattava della prova del fuoco al circo o dell’acqua per un bambino che non sa ancora nuotare.
In quei minuti non si capì nulla. Alcuni giornalisti napoletani cominciarono a sentirsi minacciati dai tifosi irpini. Furono lanciati fumogeni, si udirono cori contro Napoli. Poi la scena drammatica: un folto gruppo di tifosi azzurri che rincorrevano i carabinieri presenti sul campo brandendo mazze e cinture costringendoli alla fuga negli spogliatoi. Un’immagine scioccante per chi come me, classe 1976, è cresciuto dinanzi alla tv a guardare sgomento la tragedia dell’Heysel raccontato da un attonito Bruno Pizzul. Noi giornalisti scendemmo direttamente negli spogliatoi per provare a comprendere che cosa fosse accaduto, che cosa avesse scatenato l’ira degli ultras del Napoli. Una volta nel ventre del Partenio, dove poi trascorsi praticamente tutta la serata, appresi la notizia di “due morti” tra i tifosi azzurri. Addirittura due. Per la carica della polizia all’esterno dello stadio e i soccorsi in ritardo, erano le accuse. Da qui la reazione violenta, violentissima, contro le forze dell’ordine. I morti dopo un’oretta si ridussero a uno. La tragedia restava tale. Enorme. Un morto per una partita di calcio: un’assurdità a cui non ci si abitua mai.
Le notizie erano frammentarie e imprecise. I cellulari dopo pochi minuti andarono in tilt: non c’era più linea. Giocatori e arbitri vagavano per il corridoio ancora in pantaloncini come se, di lì a poco, si sarebbe potuto tornare in campo. Oggi, con i social network, le informazioni sarebbero state senz’altro di più. Confuse, sovrapposte, cariche di odio e retorica, ma almeno qualcuno presente in loco avrebbe potuto testimoniare in tempo reale sull’accaduto. Invece, brancolammo nel buio fino all’amara certezza della morte del giovane Sergio Ercolano. Precipitato da una tettoia in plexiglass. Aveva il biglietto? Non lo aveva e voleva scavalcare? Dubbi rimasti irrisolti sul piano giudiziario. L’avvocato della famiglia ha sempre sostenuto che avesse il biglietto e che stesse fuggendo da una carica dei celerini per respingere tifosi senza ticket che facevano pressioni per far aprire i cancelli: nella concitazione non si sarebbe reso conto di essere in una zona prossima ad una copertura di plexiglass che poi cedette. Nel processo, il Comune di Avellino è stato prosciolto da ogni accusa. «Il caso è stato archiviato come fosse una pratica. Ma lui era un ragazzo con in tasca i soldi e il biglietto, che non sono stati trovati, e stava fuggendo perché voleva tirarsi fuori dai disordini. Non ho mai chiesto vendetta, solo giustizia. Ho trovato conforto nella fede, forza negli altri miei due figli, ma è brutto riconoscere che per gente come noi non c’è giustizia. Ed è brutto riconoscere che i morti non sono tutti uguali», ha detto la mamma di Sergio l’anno scorso ai quotidiani.
Come dire: un morto in più, si va avanti lo stesso. Titoloni sulle prime nazionali, inchieste della magistratura, annunci di norme speciali e poi tutto come prima. Gli ultras trattati come ghetto, bestie in gabbia. State lì, che conviene a tutti: è il messaggio dello Stato. E troppo spesso gli stessi ultras sembrano crogiolarsi di ciò. La politica è “corrotta”, i giornalisti “infami”. Fino a quando non ne muore un altro e d’improvviso il calcio ci appare solo una cattiva “scusa”, una tragica “occasione”, un “non-luogo” dove le regole non esistono. E la morte di Ciro Esposito, maturata con la negligenza colpevole delle forze dell’ordine che avrebbero dovuto e potuto prevenire, lo ha confermato. Gli ultras contestano il “calcio moderno”, ma questo gioco divenuto un business non è più compatibile con la “fede”, le emozioni, il semplice divertimento. Non può essere amato a tutti i costi. Se lo spettacolo non è di grande livello e il teatro in cui si recita è sporco e disagevole, perdonatemi: resto a casa. Non è la stessa cosa, lo so bene. Non si sentono gli odori del campo, non si ascoltano le imprecazioni del vicino, non si colgono le finezze calcistiche. Non si viene avvolti dall’atmosfera, quella che precede una partita tesa e non una guerra che – almeno io – non voglio combattere.
Carlo Porcaro