Gioiamo. E prepariamoci ad un Europeo straordinario. Il commissario tecnico della nazionale ha accennato con poche ed efficaci parole i rigidi ed esclusivi criteri che seguirà per scegliere il gruppo che avrà l’onore di portare a termine un compito eccezionale come la partecipazione a un torneo continentale. Tempo di gioia e di uomini straordinari, dunque.
Della scuola degli uomini straordinari Antonio Conte non è il fondatore. È un epigono, dalla carriera fin qui oggettivamente luminosa, che condivide una visione del gioco e della disciplina necessaria a interpretarlo legata ad un approccio al calcio che chiameremmo maschio. Forse ci ha condizionato quel mediocre polpettone cinematografico di qualche tempo fa dal titolo “300” – chilometri di pellicola in salsa slow-motion sacrificati a più di un’ora di virilissimi petti nudi che si gettano in mischie furibonde alla ricerca di una impresa insperata e, appunto, straordinaria – ma c’è qualcosa di Leonida in questo tipo di allenatore, al punto che quasi non farebbe meraviglia sentirsi rispondere alla domanda: “Perché è necessaria tutta questa straordinarietà?” con un piccato e definitivo: “Perché questa è Sparta!”
L’idea che il gioco vada dominato più che interpretato, sotto l’onda d’urto crescente di livelli di intensità nervosa e stato psicofisico eccezionali, è in sé un punto di vista sul calcio per nulla nuovo. L’ipotesi di lavoro alla sua base è che una gestione settaria dello spogliatoio cementifichi il gruppo, vi costruisca attorno mura inviolabili, colmi le eventuali lacune tecniche dei singoli e riesca a far emergere in loro doti insperate. Una prospettiva a suo modo eroica, che si sviluppa in contesti in cui sono fondamentali il senso di appartenenza, la metafora della maglia “seconda pelle”, l’orgoglio come sentimento privilegiato e, appunto, il senso della straordinarietà della propria missione. Più prosaicamente, squadre pallute – per rimanere in tema spartano – che hanno un riferimento tecnico-tattico in un uomo di calcio importante, sia per successi ottenuti che per complessità del personaggio, come Jose Mourinho, cui innumerevoli allenatori si sono ispirati, per loro stessa ammissione, in fasi diverse della propria carriera – e tra i quali figura, senz’altro, Walter Mazzarri.
Tecnici che hanno anche vinto in carriera, dunque, e con indubbi meriti, ma che non sono mai apparsi compiutamente contemporanei. Neppure il Mourinho del Chelsea. Il calcio, infatti, specie nell’ultimo decennio, ha messo a punto un importante mutamento organico di se stesso ed in una sorta di piccola rivoluzione copernicana ha posto al centro del discorso, del gioco stesso e del suo significato, l’estetica. Hanno assunto valore fondante di questo sport moderno elementi che erano parsi semplici comprimari nel passato: oggi si discute, ad esempio, di possesso palla, di tiri nello specchio, di heatmap del campo, di numero di soluzioni tattiche disponibili per ogni squadra. E lo si fa per capirci qualcosa di più del semplice risultato in un calcio in cui l’estetica è stata elevata a metodo, e anche allo spettatore è richiesta una maturità differente per poterne apprezzare la struttura fine. Oggi è difficile dire tout-court del Bayern Monaco che è la classica “corazzata teutonica”, senza tradire in modo grossolano l’evidenza che ci sia qualcosa di irriducibilmente lieve nel loro modo di giocare, ed esso è appunto l’infinità di situazioni tattiche che la tecnica sopraffina di questi giocatori sa costruire in novanta minuti. Sembra di assistere ad armonicissime coreografie di ballo riprodotte in inespugnabili tank tedeschi, e la modernità è proprio nella natura paradossale di questo ossimoro. È una estetica sofisticata, che a volte è sembrata ritorcersi su se stessa e insterilirsi (per esempio in alcuni periodi di tiki-taka catalano), ma che ha saputo rinnovarsi ponendo prepotentemente nel cuore di questo gioco la questione della bellezza come via alla vittoria, anzi quale condizione necessaria al raggiungimento e alla legittimazione della vittoria stessa.
In questo movimento calcistico che si osserva da qualche tempo, gli allenatori-Leonida sembrano cantare inevitabilmente fuori dal coro, come eretici reazionari che non sfidano l’ortodossia corrente con la provocazione di idee nuove, ma ripropongono schemi del passato a problemi del presente, principalmente perché i valori che il loro metodo richiede e produce hanno ormai poca applicabilità nel mondo che viviamo. Non è una tragedia, intendiamoci. Anzi, essi sono la dimostrazione vivente che si può vincere senza essere pienamente contemporanei. Ma sono anche la prova che la vittoria non è un parametro sufficientemente affidabile per capire di cosa si parla. Con talune realtà storiche, in fin dei conti, bisognerebbe venire a patti e far pace: sì, non esistono più le bandiere, ma chi ha detto che ciò sia una iattura? Forse che si rischia l’estinzione delle squadre di calcio, senza uomini-simbolo che vestano le loro maglie come una seconda pelle? E chi può arrogarsi il diritto di dire che il calcio di oggi, senza bandiere, sia meno spettacolare di quello di un tempo, senza ammettere di dire una sonora sciocchezza e rischiare di finire nel classico refrain: “Ai miei tempi era tutto meglio”? Oggi è oggi. E la vera sfida di questi anni è quella di riuscire a costruire una professionalità composita e duratura in gruppi di persone di età, origini, capacità, lingue e stili di vita differenti, abbandonando la morale della maglia – che nel mondo globale in cui viviamo non ha più il necessario senso storico su cui poggiarsi. Bisogna provare a vincere con uomini prestati a una missione temporanea, che non è questione di vita o morte, come per Leonida, e che ragioni di questo tipo non sono disposti a sentirne. E poiché in questo scenario il senso di appartenenza ha inevitabilmente poco mordente, è la bellezza a dover essere la stella polare di un giocatore – o qualcuno pensa seriamente che Cristiano Ronaldo goda a segnare da ogni posizione del campo non per senso estetico di sé ma perché ama Madrid e la maglia bianca?
Dunque, il prologo di Conte agli Europei prossimi venturi non colpisce molto la fantasia, siamo onesti. Conte, come altri hanno fatto, potrà vincere. Ma la rivoluzione calcistica degli ultimi anni fa sì che la vittoria non possa più ergersi a parola definitiva sulle vicende sportive di una squadra. Che gli piaccia o meno. Lo vediamo, in queste settimane, con l’Inter di Mancini – che vince, molto ed in modo costante, e così si candida al titolo, ma non riesce a liberarsi dalle osservazioni critiche di chi, ogni settimana, nota una squadra con tre punti in tasca ma anche quell’inspiegabile sensazione di aver visto un film muto in bianco e nero nell’epoca dei video in definizione 4K. Neppure a Mancini quest’antifona piace, ma tutti siamo condannati a vivere il presente. Anche lui.
Tra Conte ed Insigne, infine, il futuro è del secondo. E non per una banale questione anagrafica. Ma perché il secondo vive a pieno questo tempo fortemente individualistico, che è il suo tempo ed il nostro, privo di reali barriere se non quelle che ciascuno vuole costruirsi per tutelare e difendere le proprie paure – e dunque i propri privilegi. Insigne non è alla ricerca di una missione straordinaria o di una seconda pelle, ma della propria maturazione tecnica attraverso la quale uomini e donne di qualunque fede (sportiva e non) possano sciogliersi in una felicità alla quale sarebbe assurdo chiedere il documento di identità.
Raniero Virgilio