“Però, Sarri da Figline Valdarno!”. Ispirandosi all’autobiografia di Alex Zanardi, chissà che un giorno l’ex esperto di cambi e oggi allenatore più apprezzato d’Italia non intitoli così il libro della sua vita. In pochi mesi, Maurizio Sarri è passato da signor nessuno, emblema del ridimensionamento pallonaro cittadino, non solo a profeta del calcio italiano ma anche a personaggio simbolo della campagna elettorale che a Napoli sembra essere partita più lunga della volata perduta da Saronni a Praga nel 1981. Fu vittima di una congiura, Beppe, lasciato solo dai compagni nel bel mezzo del vialone d’arrivo. Si rifece l’anno dopo a Goodwood, facendo tutto da solo. I Mondiali di ciclismo non sono come le elezioni, non si disputano ogni cinque anni.
Ma torniamo a Sarri. Tirato per la giacchetta quasi come un presidente della Repubblica. Tecnico che in pochi mesi ha conquistato giocatori, ambiente, stampa nazionale. E che Antonio Bassolino usa come termine di paragone per la sua ri-discesa in campo, ventidue anni dopo. «Sono stato Maradona nel 1993 – dice con sprezzo della modestia – adesso voglio fare Sarri, un grandissimo allenatore che sa lavorare con i giovani». Paragone invero improbabile. Sarri è arrivato a Napoli da signor nessuno ed è riuscito a entrare nella testa e nell’anima di campioni e ottimi giocatori che per un motivo o per un altro non erano sempre riusciti a offrire il meglio di sé. È anche per questo che affascina. Insomma, l’esatto contrario della situazione napoletana. Dove un Pd in disarmo sembra improvvisamente riaccendersi per il ritorno in pista di un sicuro protagonista che aveva appeso, seppure controvoglia, le scarpette al chiodo. Di esempi ce ne sono tanti. Tutti i grandi campioni sono ritornati. Si può tornare come Muhammad Alì e fare la storia in una notte umida di Kinshasa; si può tornare come Borg e fare tenerezza finendo strapazzati a Montecarlo 6-2 6-3 da un Jordi Arrese qualsiasi; ancora, si può tornare come Maradona, recuperato ai margini dell’esistenza pur di vendere il prodotto Usa 94 e poi gettato via perché troppo pericoloso. L’elenco è lungo, lunghissimo.
Colpisce quanto il calcio sia centrale in questa campagna elettorale napoletana. E non solo per il riferimento a Sarri. Per mesi, e ancora lo sarà, il futuro dello stadio san Paolo è stato al centro della scena. Aurelio De Laurentiis è stato probabilmente l’unico avversario politico del sindaco Luigi de Magistris in questo quinquennio. La convenzione, il progetto, i 41mila posti, il terreno di gioco, i concerti. I destini della politica cittadina sembravano incredibilmente legati all’impianto di Fuorigrotta. Lo stesso de Magistris è diventato un ospite fisso della tribuna d’onore dello stadio. Quando De Laurentiis vuole attaccarlo, allude al suo interismo. Come se Napoli fosse una città di fondamentalisti del tifo. Come se non esistessero juventini, interisti, milanisti, romanisti (sì, romanisti) e soprattutto tifosi del Napoli laici.
Laici. Che bella parola. Come cuoco. Proprio in questi giorni hanno proiettato a Napoli, trent’anni dopo, “Ricomincio da tre” il capolavoro di Massimo Troisi. Il suo film d’esordio, probabilmente la sua opera migliore o comunque quella che ci racconta meglio di ogni altra di questo straordinario artista, emblema della laicità napoletana. L’orgoglio dell’appartenenza sin dalla scelta del registro linguistico – Troisi parla in napoletano e il film andò benissimo in tutta Italia, addirittura a Roma stabilì il record tuttora imbattuto di giorni consecutivi in sala – accompagnata da uno sguardo disincantato della situazione lavorativa, dal disagio di una condizione di stagnazione che diventa quasi oppressione quando torna per il matrimonio della sorella. Chissà come sarebbe vissuta oggi quella scena dai fondamentalisti della napoletanità.
Eppure Troisi era napoletano, tale si sentiva. Con leggerezza provava a smontare i luoghi comuni, su tutti quello del napoletano che non può viaggiare ma solo emigrare. Un napoletano laico che in un’ospitata televisiva (per capire Troisi sono fondamentali le sue comparsate tv) si divertì a inventare quella volta che tornò a casa a ora di pranzo e nessuno della famiglia gli aprì. Sentì strani ruori in casa e poi finalmente il papà fece capolino per poi tirare un sospiro di sollievo: “Ah, si’ tu Massimo. Scusa, ci siamo presi una paura, stavamo mangiando gli gnocchi”. Un capolavoro. Lieve, ironico, sottilmente amaro. Laico.
Forse oggi avrebbe trovato un modo dei suoi per ricordare che quando il Napoli vinse il primo scudetto, la città era senza sindaco. C’era un commissario straordinario che successe al socialista Carlo D’Amato. Sergio Vitiello si insediò il 23 ottobre del 1986, tre giorni prima della vittoria a Roma con gol di Maradona, e lasciò il 28 luglio dell’anno dopo. Giusto il tempo di accompagnare la città verso la storia. Anche di essere coinvolto in una vicenda di tangenti per la gestione del patrimonio immobiliare. Finirà prescritto.
Massimiliano Gallo