Mentre scrivo ho la diretta televisiva francese in sottofondo, come è stato nelle ultime dodici ore.
Sono rimasto in pizzeria chiuso dentro fino alle quattro di notte con una collega, avevamo paura e io non ho mai avuto paura di morire, non ho mai sentito la mia vita a rischio, non mi era mai stato detto che se fossi uscito qualcuno avrebbe potuto spararmi con un kalashnikov, un kalashnikov. Non ho mai pensato di morire ucciso, ho pensato alla morte e ne ho avuto paura come fanno tutti, ci ho riflettuto, ho cercato una spiegazione, ma non mi è mai stato detto che a via Omodeo o all’Alexander caffè c’era stata una strage e che i colpevoli giravano per la città sparando, che uccidevano a sangue freddo, calmi, puntandoti un coso che nella mia testa era enorme come la guerra.
Alle quattro ci siamo fatti coraggio, un taxi, un tassista pelato con una barba enorme, sullo specchietto retrovisore dondolava qualcosa di tondo che sembrava uno stetoscopio, io e la mia collega ci guardiamo raggelati e lei mi chiede di non lasciarla sola nella notte. Parigi non è deserta, c’è qualcuno che corre o che ciondola nell’irrealtà o che grida a qualche dio che scivola nelle nostre vite con la minaccia di urlare a sua volta la nostra vita, un dio rischioso. Dalla pizzeria a casa, cercando di calmare la mia amica, l’aria non era pesante, era dura, ci sentivamo tutti soli. Non lo so spiegare, buio, freddo e poliziotti enormi neri armati, a pochi metri da casa mia, come se fossi a via Simone Martini, a via Jannelli. Una fitta al centro che più che dilaniarmi mi minacciava di far implodere il torace: vagivo dentro e sognavo la mia stanza, dove mi portavano il caffè, dove perdevo il tempo, dove dormivo in un letto singolo con mamma e papà nella camera accanto, sotto quelle coperte che conservano le mie solitarie carezze. Desideravo essere lì e guardare nella piccola televisione Natale in casa Cupiello, ma tutto questo era un incubo che mi mostrava me stesso specchiato nella realtà.
In quel letto Luca Cupiello si sveglia e cerca il presepe e si addormenta biascicando il bel presepe, per non guardare la realtà comincia a descrivere il proprio incubo cacagliando una lingua incollata e secca come il fazzoletto che usa per sollevare la bava. Sotto quelle coperte mi sono accarezzato e da lì viene questa follia: l’incubo comincia quando si cerca la sicurezza, che nella sua chiusa fecondità onanista ci rende incubi nella paura.
Volevo tornare a casa, nella mia stanza, volevo scappare e tornare tra i miei odori e le mie inutilità.
Facevano la fila per un concerto, erano alla Petit Cambodge, ci ho mangiato almeno cinque volte, erano a Le Carillon, io ci vado la mattina quando non lavoro, da lì una volta chiamai i miei genitori. Erano vivi.
Se penso ancora alla mia stanza, a quel dolce profumo di ciabatta felpata e alle mie sigarette sulla scrivania finalmente mia dopo che mio fratello si è sposato, divento una maschera da incubo, rischio di diventare come loro e come Luca che strappa parole al sogno per un presepe.
Io continuo ad essere vivo e amo questa città che mi sputa in faccia le difficoltà come dovrebbe fare un buon maestro, io amo la città che mi costringe in un buco, a risparmiare per un bicchiere di vino, a puzzare di cipolla, che mi espone, e non la lascerò a chi si è fatto abbindolare da quell’incubo che mi si è riproposto nel buio freddo e duro della solitudine.
Tutti quelli che stavano vivendo fino a quel momento ci costringono a vivere ancora e chi si ritrae è destinato a quelle carezze nascoste che evitano di esporsi.
Masturbatevi e amatevi, noi amiamo la vita e Parigi.
Andrea Virgilio