
Ha riaperto ieri sera, dopo due anni e nove mesi di buio, la storica Cantina di Triunfo, alla Riviera di Chiaia. Riapre con un nuovo nome, Triunfo Napoli, ma con la stessa filosofia di un tempo a sorreggerne le fondamenta, quelle fondamenta minate all’improvviso, la mattina del 4 marzo 2013, dal crollo di Palazzo Guevara, che costrinse decine di persone ad abbandonare le proprie case e decine di imprenditori a lasciare le proprie attività. Tra questi Antonio Triunfo, appunto, figlio di Carmine, che negli anni Ottanta aveva fatto sì che la Cantina diventasse un punto di ritrovo obbligato per gli amanti del buon vino e della buona cucina. Antonio aveva rilevato le quote dalla mamma nel 2010, lanciandosi in una ristrutturazione dai toni più moderni. Era lui a gestire il locale al momento del crollo. È stato lui a subire i colpi più duri dei due anni e nove mesi che sono passati da allora, fatti di disperazione, silenzio, battaglie e umiliazioni. Fino ad oggi.
Triunfo Napoli ha riaperto al pubblico il primo gennaio di quest’anno ma ha festeggiato davvero la sua rinascita ieri sera. Ne abbiamo parlato con Antonio Triunfo, oggi 38enne, che ha voluto far riemergere dall’acqua e dal fango la sua azienda di famiglia insieme ad un socio, Gaetano Russo. I due giovani imprenditori hanno trasformato questo pezzo di storia nell’arredo (in parte) e nella sistemazione degli spazi, mantenendo inalterata la sua filosofia. Non più solo mescita di vini e ristorazione, ma anche bar, tabacchi e un banco da asporto per formaggi, salumi e piatti cucinati secondo la tradizione della storica Cantina.
Non più Cantina di Triunfo ma Triunfo Napoli: in cosa il nuovo locale si distacca dal passato e in cosa, invece, rappresenta una rilettura moderna di una tradizione di famiglia?
«Dal passato si distacca perché prima eravamo una rivendita di vini con annessa ristorazione, un’azienda familiare tramandata di padre in figlio, con tutto quello che ci racconta la storia. Oggi siamo una società, dunque non più una ditta di famiglia e non più solo una rivendita con annessa ristorazione ma anche bar, tabacchi, tavola calda, banco da asporto, ristorante e una mescita di vino ampliata rispetto alla precedente».
Triunfo Napoli sarà aperto h24. È come se dopo essere rimasti chiusi così tanto tempo voleste in questo modo esorcizzare il pericolo restando aperti sempre. È così?
«Diciamo che è per recuperare tutto il tempo che abbiamo perso…» (ride, ndr).
Proviamo a rivivere insieme i momenti successivi al crollo di Palazzo Guevara?
«Le voglio raccontare un aneddoto divertente per esorcizzare la tragedia: al momento del crollo avevo con me, in una busta, un dentice di 8 kg pescato a Capri. Arriva questo signore che conoscevo, della zona, e mi avvisa che sta crollando il palazzo e di scappare. Pensando che si trattasse del palazzo della mia Cantina sono corso via subito, lasciando la busta a terra. Quando mi sono riavvicinato alla porta la busta non c’era più. Non ho mai più visto quel dentice: o me l’hanno rubato o si è buttato a mare per scappare anche lui…».
Cosa ha significato per lei quel giorno?
«È stato terrificante. Il trauma si supera, ma la paura rimane addosso. Non ti aspetti mai che nella vita ti possa succedere una cosa del genere, che ti venga tolta l’azienda a causa di una cosa che non dipende da te. Per quasi tre anni abbiamo combattuto contro le istituzioni, contro i problemi legati non a Napoli, perché non è più Napoli il problema, ma alla nazione Italia. Aprire in un’altra struttura era impossibile, una chimera spostare macchinari, attività. Trovare un locale simile a quello di partenza non era facile, oltre al fatto che dall’oggi al domani avevo chiuso e avevo ristrutturato nel 2012… Dopo un anno soltanto non potevo affrontare ulteriori investimenti. Da qui la scelta di rimanere chiuso, di aspettare momenti migliori e di affrontare prima di tutto gli impegni economici e morali della vecchia azienda, perché la banca ha voluto comunque i suoi pagamenti e lo Stato ha preteso comunque le tasse sulla proprietà…».
Che tipo di supporto avete avuto dalle istituzioni?
«Il supporto è stato ridicolo. Ci hanno abbonato temporaneamente le tasse comunali, ma non era quello il problema. Lei immagini: uno scende la mattina per aprire la propria attività e all’improvviso gliela tolgono, gli tolgono il piatto da tavola, gli strappano la cucina da casa. Abbiamo combattuto – io e gli altri commercianti, perché non sono il solo ad aver accusato il colpo – contro il vento. Nessuno ci ha aiutati. La Regione ha stanziato 4mila euro a testa come regalo, ma mi è sembrata un’elemosina. Se considera che sono stato chiuso per due anni e nove mesi, è come se mi avessero dato 30/40 euro al mese. Un contributo, tra l’altro, uguale per tutti: i 4mila euro li ha avuti la mia azienda e ne ha avuti altrettanti la piccola botteguccia. Non voglio essere cattivo con la botteguccia ma si rende conto che io sono stato costretto licenziare dipendenti, a pagare Tfr, a versare una cifra congrua per far prendere ai miei lavoratori la disoccupazione ufficiale. Almeno, però, li ho lasciati tranquilli per 11 mesi, il periodo del sussidio. Io, invece mi sono ritrovato all’improvviso a non saper più che fare, mi sono reinventato, nel modo migliore possibile».
In che modo si è reinventato?
«Da titolare di un’azienda sono passato a scaricare container, ad aggiustare depositi. Ho anche partecipato ad una società, in Sardegna, che aveva l’obiettivo di produrre bava di lumaca e principi attivi estratti da piante officinali. Ho fatto il magazziniere, ho accettato qualsiasi lavoro che potesse servirmi a portare a casa un piatto per mio figlio. Ho dovuto trovare il modo per comprare il mio litro di latte. Ho subito negazioni molto pesanti. Ho elemosinato un lavoro per andare avanti perché avevo perso il mio, che per diritto mio mi ero creato. Ero riuscito ad avere l’azienda di famiglia perché, negli anni, avevo dimostrato alla mia famiglia che mi piaceva, non dico che ci sapevo fare, ma che mi ci dedicavo. Le dirò una cosa che potrebbe sembrarle un paradosso… è stata meno scioccante la perdita di mio padre, all’età di 21 anni, piuttosto che quello che mi è successo dopo il crollo. Non riesco ad esprimere bene quello che ho vissuto: mi ricordo solo le umiliazioni».
Adesso riapre la sua azienda con un socio. Ha incontrato molte difficoltà? Ha mai pensato di mollare, nel frattempo?
«Difficoltà una marea. La situazione non era per niente facile per me. Per quanto il mio socio sia un mio carissimo amico, e per quanto nutra verso di lui una grossa stima e già da tempo volessimo fare qualcosa assieme, non avevo comunque la forza di poter scegliere, di poter fare di testa mia. Certo, per un locale h24 avrei scelto sicuramente un socio: come si dice a Napoli, “l’occhio del padrone ingrassa il cavallo”».
Quanto tempo avete impiegato a ripristinare il locale?
«I lavori sono durati circa sette mesi, abbiamo dovuto rifare i massetti per problemi del sottosuolo. In pratica era salito il livello della falda acquifera, perciò abbiamo dovuto alzare la maggior parte dei pavimenti e rifare i massetti con un nuovo sistema. L’Enel non riusciva a darci i 50kw ore di cui avevamo bisogno. Pensi che siamo rimasti chiusi per due mesi, dopo la fine dei lavori, perché l’Enel non riusciva a darci la fornitura necessaria. Abbiamo dovuto combattere per avere l’energia elettrica. I problemi sono tanti, non riesco ad elencarli, cerco di dimenticarli. Per la prima volta nella mia vita faccio qualcosa e mi sento già stanco, fisicamente e mentalmente, anche se sono carico di nuova energia per la riapertura. E dopo più di due anni di battaglie ancora non è finita».
È riuscito a recuperare qualcuno dei suoi vecchi dipendenti?
«Ne ho recuperata una sola, perché gli altri, per loro fortuna e bravura, hanno intanto trovato un lavoro. Alessia, invece, che all’epoca del crollo era incinta, come mia moglie, era rimasta a spasso. Aveva cominciato a lavorare con me nel 2011, quando ho rilevato l’azienda da mia madre e faceva la cameriera. Quando è successo quello che è successo, ho promesso a tutti i miei dipendenti che avrei cercato di aiutarli e che semmai avessi riaperto avrei chiesto loro di tornare con me, per affetto e diritto. Con Alessia ci sono riuscito».
Da chi ha ricevuto più solidarietà in tutto questo tempo?
«Dai familiari. Solo da loro. Qualche fornitore mi ha permesso di dilazionare gli impegni, certo. Per fortuna comunque avevo solo piccoli debiti: sono sempre stato del parere che sia meglio pagare la merce con i propri soldi piuttosto che lasciare pagamenti dilazionati. A parte questo, nulla. Ci hanno fatti andare alla Camera di Commercio per offrirci un mutuo a tasso agevolato che tanto agevolato non era per niente. Abbiamo chiesto aiuto perché per legge paghiamo una rata obbligatoria a loro e non potevamo più permettercelo, ci aspettavamo un supporto ma non lo abbiamo avuto. A chi aveva locali assicurati, come il mio, le assicurazioni non hanno riconosciuto niente perché si è trattato di un evento improvviso e incontrollabile».
È stato davvero un evento così “improvviso e incontrollabile” il crollo?
«In realtà c’erano state delle avvisaglie. Noi stessi andammo dagli allora tecnici dell’Ansaldo lamentando che il livello della falda acquifera era salito. Sotto il massetto avevamo acqua a 40 cm, poi piano piano salì a 20, poi raggiunse il livello del pavimento e lo superò. Ci assicurarono che l’aumento della pressione nel sottosuolo era stato causato dal passaggio della talpa che aveva fatto il tunnel e che entro sei mesi sarebbe rientrato tutto. Dopo un ano tornammo da loro e la risposta fu la stessa: “Non si preoccupi, adesso passa”. Intanto abbiamo avuto per due anni una pompa di sentina accesa notte e giorno per pompare l’acqua dal pavimento, per non farla salire oltre il livello. Questa è stata la storia. Poi c’è stata la discussione sul DogOut, si dice che il proprietario abbia avuto una buonuscita per andarsene, ma è una storia che non conosco, non glielo saprei confermare».
E i clienti? La città? Come hanno reagito?
«I clienti, o chi ci conosceva dal punto di vista lavorativo, ci hanno dato un supporto morale, ci hanno spinti a ripartire. Ancora fino a poco tempo fa, a più di due anni dal crollo, mi chiamavano per sapere se avevamo riaperto altrove. Tutto sommato la politica portata avanti dalla famiglia negli anni non è stata così sbagliata, sotto il profilo umano e commerciale. E questa è stata la motivazione per cui sono voluto ripartire, oltre al fatto che mio padre c’è morto, in questo locale, e riaprire è un modo per onorare la memoria di famiglia. Siamo sopravvissuti alle due guerre mondiali, al terremoto, alle crisi del 1990 e del 2000! Non potevamo permettere che dei tecnici balordi mettessero fine alla nostra storia».
Cosa avete conservato della vecchia Cantina e cosa, invece, siete stati costretti a buttar via?
«Abbiamo dovuto gettare molti allestimenti, alcuni macchinari e tante bottiglie di vino storiche perché non sapevo dove depositarle. Sa, quando le bottiglie sono da collezione hanno bisogno di un deposito che abbia almeno il 60% di umidità o comunque una temperatura al di sotto dei 18°. Molti pezzi si sono rotti, altri si sono rovinati per i due anni e mezzo di abbandono, come il bancone di legno massello, li abbiamo dovuti cambiare. Della vecchia Cantina c’è molto, però: una porta del ‘600, un affresco del ‘600 che si è mantenuto bene e che prima non era a vista ma che adesso invece abbiamo voluto omaggiare mettendolo in risalto… è sopravvissuto, se lo merita! E poi la vecchia bottigliera, alcuni dei vecchi tavoli e delle vecchie sedie, dei quadri, mentre tanti altri si sono macchiati o sono stati mangiati dall’umidità. Pensi che il primo giorno che sono potuto rientrare a casa, nel mio locale, risultava il 99% di acqua nelle pareti…».
Ci sarà anche un bancone da asporto, nel nuovo locale, per quali prodotti?
«Prodotti di pronto cucina, quelli che serviamo nel locale. Per noi c’è poca differenza tra quelli da asporto e quelli del ristorante. È una cosa che riguarda più il servizio che la qualità. Non abbiamo bagnomaria, tutto quello che viene cucinato in termini di contorni e secondi viene esposto, ma la pasta e cavolo o la pasta e ceci, che sono tra i nostri piatti tradizionali, sono preparate al momento. L’impostazione è rimasta quella della vecchia Cantina: preferisco così, piuttosto che mandare a casa dei clienti qualcosa di scotto».
Cosa si aspetta dall’inaugurazione di questa sera e, in generale, da questo nuovo corso?
«Non mi aspetto nulla. Non so cosa aspettarmi. Anzi, forse sì: mi aspetto, forse, di dimenticare tutto quello che mi è successo e ripartire, andare avanti, vedere cosa ne viene fuori. Ne ho bisogno».