Pubblichiamo in quattro puntate la vita di Massimo Troisi a cura di Antonio Fiore, già apparsa sul Corriere del Mezzogiorno e tratta dal blog www.ilcriticomaccheronico.it
“Massimo, ma com’è che ogni volta che vengo a intervistarti ti trovo in una casa nuova?”. “Guarda che non sono io che cambio casa troppo spesso, ma si’ tu che vieni a intervistarmi troppo di rado. Così, tra un’intervista e l’altra, io nun tengo che fa’ e cambio casa”. Questa – che in fondo, aveva ragione lui, era solo la sua seconda e ultima casa romana – stava in via Adelaide Ristori, giusto tra via Tommaso Salvini e via Eleonora Duse. Tutti mostri sacri del teatro italiano. Quartiere Parioli, atmosfera silenziosa, signorile, ovattata. Persino troppo ovattata, per uno come lui che l’infanzia e la prima adolescenza l’aveva trascorse a San Giorgio a Cremano in una famiglia numerosa e chiassosa come una compagnia teatrale. Una casa romana bellissima e troppo grande, forse per questo nel vasto salone campeggiava una batteria: per riempire il vuoto. Per esorcizzare il silenzio. Per fare un po’ di casino. Per disturbare la quiete aristocratica dei fantasmi delle Ristori, delle Duse e dei Salvini.
Quella ai Parioli fu l’ultima intervista che gli feci. Doveva essere il 1989 o il ’90, dopo i due film per Scola e prima di “Pensavo fosse amore…”. Ma, più che dei suoi progetti immediati, Massimo si ostinava a parlarmi di Pasolini, di quanto mancasse all’Italia un intellettuale come lui: “Vorrei avere la sua preparazione, la sua capacità poetica di denuncia”. Sembrava insofferente allo stereotipo comico entro il quale tendevamo pigramente un po’ tutti a rinchiuderlo. Non avevamo ancora capito che lui era già lontano, lungo quella lingua di terra in cui avrebbe camminato a fatica, spingendo la bicicletta del postino o registrando i suoni della natura da lasciare in eredità al suo amico poeta. E a noi, a cui Massimo manca da più di vent’anni.
1994 – 2015: se fosse ancora qui, Troisi avrebbe poco più di sessant’anni, dieci in più di quei cinquanta da orsacchiotto che lui suggeriva come aureo tertium all’alternativa tra il giorno da leone e i cento anni da pecora in cui si dibatteva forsennatamente l’amico Lello Arena in “Scusate in ritardo”. Leone, pecora, orsacchiotto: anche se, per capire davvero che animale fosse Massimo, bisogna necessariamente partire dal minollo, creatura mitologica formata da un uomo più un foglio di giornale accartocciato in testa a mo’ di orecchie nel tentativo disperato di gabbare Noè e salvarsi così dal Diluvio universale. “E che sarebbe questo minollo?”. “È quell’animale che… cioè… no…”, e via con tutto il repertorio di balbettamenti, ripensamenti, esitazioni al limite dell’afasia che da quei primi sketch con La Smorfia diventano la cifra stilistica immediatamente riconoscibile di un talento del tutto atipico nel panorama italiano.
Ogni dieci anni i giornali e le tv lo celebrano, ma quelli che gli hanno voluto davvero bene ricordano Massimo Troisi anche negli anni dispari. Era un anno dispari pure quello in cui nacque, il 1953, 19 di febbraio, segno zodiacale Acquario per un pelo, nella casa di San Giorgio a Cremano: napoletano dunque, ma periferico. Figlio di ferroviere, e dunque condannato a ricevere a ogni Befana un trenino invece dell’agognata bicicletta.
Nessuno di quella modesta famiglia al terzo piano di piazza Tarallo che lui chiamava “la mia compagnia stabile” (padre, madre, cinque fratelli, zii e cugini varii, in tutto quindici persone compresi nonno e nonna, “i capocomici”) aveva mai avuto a che fare con il mondo dello spettacolo, ma Massimo ebbe successo quasi subito, addirittura quando era ancora un lattante: la madre Elena aveva inviato quasi per gioco una foto del bambino ancora in fasce alla Mellin, casa produttrice di latte in polvere, e la foto venne pubblicata. “Fu la sua prima e ultima esperienza in pubblicità, – ricorda sorridendo la sorella Rosaria, custode della memoria familiare – in tutta la sua carriera Massimo non volle mai legare la sua immagine a prodotti commerciali”. Un principio rispettato anche quando un noto marchio di caffè gli offrì un contratto da capogiro per legare la sua immagine alla fatidica tazzulella.
No, non è che il caffè lo rendesse nervoso, ma sin dall’inizio erano i cliché sulla napolitudine ad avvilirlo, scatenando i suoi celebri paradossi (auto)ironici: a Napoli? “C’è sempre il sole e non piove mai, il mio impermeabile sta sempre nel cellophane”. I napoletani? “Tutti i napoletani cantano e suonano continuamente, vanno sempre in giro con chitarre e mandolini, negli uffici, sui pullman, ed è pure pericoloso per i bambini”. Il cibo? “A Napoli si possono mangiare solo pizza e spaghetti, gli altri alimenti sono vietati. Una volta tornai a casa all’improvviso, sentii in cucina un gran rumore di piatti. Era mio padre: “Ah, meno male, sei tu. Mi hai fatto preccupare: ci stavamo mangiando gli gnocchi…”. Ma Napoli deve cambiare? “Cagnate Rovigo!”.
Ma questo era già il Massimo al culmine del successo, diciamo da “Ricomincio da tre” in poi. Prima, quando, lasciata la casa ‘mmiez’ ‘e tarall’ per quella vicina di via Cavalli di Bronzo, furono gli anni spensierati e affollati dei giochi di strada, della lettura vorace dei giornali (quelli che papà Alfredo recuperava nelle carrozze alla fine dei viaggi in treno, e che Massimo e Rosaria divoravano fino a imparare a memoria gli articoli di cronaca più appassionanti), della scuola che non andava mai come doveva andare, della passione travolgente per il calcio giocato, ostacolata ma mai frenata da quella maledetta febbre reumatica contratta a dodici anni e che gli procurò un progressivo cattivo funzionamento della valvola aortica: il primo segnale del male che trent’anni dopo lo avrebbe portato via. I familiari, da allora, lo circondavano di mille attenzioni, e a tavola la carne e la frutta migliori erano destinate a lui; ma come per tutti i ragazzi della sua età il cuore di Massimo aveva ragioni che la ragione ignora, lui viveva (e voleva essere trattato) come una persona sana, senza problemi di salute.
Da vero tifoso del Napoli e approfittando dei biglietti chilometrici, piccolo privilegio delle famiglie dei ferrovieri, seguiva la squadra amata in tutte le trasferte: in quelle lunghe domeniche senza notizie del figlio era il cuore di mamma Elena a tremare assai di più di quello di Massimo. Che non aveva ancora compiuto diciotto anni quando Elena se ne andò, all’improvviso, proprio mentre accudiva Massimo seduta sul bordo del suo letto, come sempre la sorella Rosaria ricorda nel bel libro “Oltre il respiro”, (cui sono debitore per molti degli aneddoti qui riportati): la passione per la recitazione era ormai divampata, assai più veloce e travolgente di quella per gli studi (Massimo impiegherà otto anni a prendersi, per sfinimento, il diploma di geometra). E se il precoce “debutto” ai tempi della quinta elementare nei panni di Pinocchio aveva colto di sorpresa i familiari, ormai quello che era stato un timido ragazzino dal grembiulino stropicciato e dal colletto di piqué storto ci aveva preso via via più gusto a salire sul palco: come quello dell’oratorio di Sant’Anna dove recitò il suo primo Petito. Attore, e più tardi, nel vento del Sessantotto che soffiava forte anche sui ragazzi di San Giorgio, co-autore di testi sperimentali come “Crocifissioni d’oggi”, i cui argomenti erano lotte operaie, emigrazione, droga, aborto. Troppo per il parroco di Sant’Anna, che chiuse metaforicamente il sipario. Massimo e i suoi amici non si scoraggiarono, si trasferirono in un vecchio garage e fondarono il Centro teatro spazio nella cui fucina prese vita il gruppo Rh negativo: ne facevano parte anche Lello Arena e Enzo Decaro, non lo sapevano ma La Smorfia era già nata.
Massimo faceva ogni domenica Pulcinella in teatro, ma un venerdì (santo) del 1974 fu anche Gesù Cristo in una Via Crucis. La sua sarebbe cominciata due anni dopo: era andato a Piacenza per guadagnarsi qualche lira come stagionale nella raccolta della frutta, e ne era tornato stremato. Una visita specialistica sempre da lui rimandata rivelò infine la gravità del suo stato fisico, un secondo luminare confermò: il ragazzo deve essere operato, e il prima possibile. Meglio se a Houston, Texas, dove c’è un reparto di cardiologia dove fanno miracoli. La famiglia Troisi non aveva certo le disponibilità finanziarie per affrontare quel viaggio, ma la solidarietà di parenti, amici e sconosciuti (contribuì anche il Quirinale, all’epoca abitato da un napoletano, Giovanni Leone) consentì di raccogliere la somma necessaria. Fu così che nel 1976 Massimo Troisi, accompagnato dalla sorella Rosaria e dal cognato, partì per l’America. Emigrante? No. Turista? Neppure, purtroppo.
(1- continua)