Quando si parla di Napoli la tendenza a drammatizzare gli avvenimenti ed ingigantirne le motivazioni è prassi, l’ultimo caso in ordine di tempo è la rapina ad Insigne.
In questo contesto prova a fare chiarezza un libro uscito da qualche settimana: “Discorsi su Napoli. Rappresentazioni della città tra eccessi e difetti” [Aracne Editrice, 14 €] il testo offre una panoramica dei dispositivi narrativi attraverso i quali viene costruito il racconto su Napoli, dall’emergenza rifiuti fino al Boss delle cerimonie, e attraverso un’attenta analisi di questi fatti sviluppa – come scrive la curatrice Stefania Ferraro – un processo «di decostruzione di quell’ordine discorsivo che racconta lo spazio napoletano secondo i frame dell’arretratezza e del crimine o dell’approssimazione e dell’arte di arrangiarsi, con l’oleografia della pizza e del mandolino.» Un impianto solido che ha edificato le sue basi su quelle «pratiche di narrazione che etnicizzano e inferiorizzano» i napoletani.
Il volume, è bene chiarirlo, ha un taglio squisitamente universitario – lontano quindi da una certa letteratura vittimistica piuttosto fiorente negli ultimi anni – che intreccia gli studi di Bourdieu, Foucault e Masullo, solo per fare alcuni nomi, con numerosi articoli apparsi sul Corriere della Sera, La Repubblica ed Il Mattino.
Ciò che accade a Napoli è oggetto di un attenzione morbosa, un interesse che non è mosso dal desiderio di spiegare sine ira et studio fenomeni sociali e fatti di cronaca, ma dall’affannosa ricerca di tutti quegli elementi, situazioni, segni e sfumature che possano corroborare la tesi di una città dell’emergenza, dell’eccezione, ingovernabile per natura. È forte la sensazione che tutto sommato questa unicità ai napoletani non dispiaccia, una città – come sostiene Erri De Luca – anarchica e monarchica, definizione affascinante, perché dunque non spingerla all’estreme conseguenze parlando di poliarchia?
Da un punto di vista storico è interessante notare come «Napoli è forse l’unica città globalizzata e postmoderna che narra ancora se stessa come costituita da due formazioni sociali facenti parte di un unico corpo: la borghesia e la plebe, definizione ferma alla rivoluzione del 1799, le cui ferite non si sono ancora rimarginate.»
Ed è da questa ferita che nasce il compromesso della napoletanità, ovvero il tentativo della piccola borghesia di creare ponti comunicativi con la plebe. Un espediente che non ha consentito però lo sviluppo di una solida e matura identità cittadina, rendendo Napoli «la città anti moderna per eccellenza, prigioniera della sua storia, una città che non sa guardare al futuro e gestire il suo presente.»
Una difficoltà che ha trovato il suo acme nella (mala)gestione dei rifiuti, da non considerare come un episodio di cattiva amministrazione, ma «il sintomo di una città soffocata dai suoi stessi prodotti escrementizi, dai suoi stessi scarti che la sommergono e la soffocano», come scriverà il napoletano D’Avanzo su Repubblica «è la terribile metafora dell’incapacità di cambiare […] il deragliamento di Napoli dalla storia.»
Un’estraneità storica che trova la sua composizione sociale nel concetto di marginalità – in cui si fonde sia la plebe che i delinquenti – e nell’illegalità le sue radici culturali.
La morte di Davide Bifolco a Rione Traiano sembra dunque, sposando certi dispositivi discorsivi, figlia di questa mefitica unione ed i cui miasmi non lasciano scampo. In fondo «è andato incontro al suo tragico destino perché il suo quartiere, la sua città, la sua cultura ansimano illegalità.»
Un’estetica del degrado con una propria colonna sonora, le canzoni neomelodiche, che raccontano storie d’amore, vite spezzate e criminalità. In questo contesto abbiamo da un lato «la lettura della musica neomelodica come evoluzione degenerata del repertorio della canzone napoletana […] che inferiorizza gli aspetti estetici accostandoli ad un pubblico indiscriminatamente incolto e musicalmente ignorante» e dall’altro uno «stigma criminale che ingloba autori, produttori ed ascoltati in un insieme continuo ed omogeneo dalla morale camorrista e dalla coscienza giustificazionista.»
Il giudizio sulla musica neomelodica trascende l’elemento artistico o del semplice gusto, acquistando connotati moraleggianti, una melodia indice dell’esecrabile «imbarbarimento della cultura popolare partenopea.»
Un processo di regressione e decadimento che rientra nel vasto insieme della napoletaneria, cioè «una forma di esibizionismo degradante», preferita – come ha scritto La Capria – dai non napoletani al concetto di napoletanità in quanto più «sensazionale e mistificatrice.»
È l’eccesso la cifra stilistica dei napoletani, un fattore genetico, una granitico retaggio culturale alimentato soprattutto da alcune trasmissioni televisive come “Il boss delle cerimonie”. Il kitsch in salsa napoletana non è spiegabile unicamente con le tendenze dell’industria culturale, ma dal conflitto irrisolto tra borghesia e plebe. Per comprendere questo dualismo la curatrice cita la metafora dell’ostrica e dello scoglio di De Zerbi: «la piccola città dell’élite napoletane vive attaccata ed al tempo stesso distinta dallo scoglio che raffigura la numerosa e affollata plebe. Dunque, Napoli è soprattutto la città plebea, quella dei lazzari incivili, dediti all’illegalità, fumatori e bevitori senza fondo, drogati e quindi colpevoli.»
Una brodaglia storico-culturale che nutre instancabilmente l’immaginario carnevalesco su Napoli ed i napoletani. Un miscuglio allo stesso tempo indistinto e rassicurante.
Sembra dunque che sia impossibile parlare di Napoli senza cadere nelle solite generalizzazioni, Dumas insegna però che sono tutte pericolose, perfino questa.