A quanto pare il prossimo allenatore della Nazionale Italiana sarà un tecnico federale. Lo avevamo suggerito anche noi, sull’onda emotiva provocata dalle indiscrezioni, poi diventate certezze, sulla fuga di Conte dalla panchina azzurra; ma non immaginavamo certo che l’auspicio potesse tramutarsi in realtà con tanta velocità.
Invece, il presidente della Figc Tavecchio, spiazzando i giornali che già si divertivano a sfogliare la margherita dei papabili, ha annunciato questa rivoluzione epocale: «Ricordo i grandi risultati delle nostre nazionali del 1982 e 2006, abbiamo sempre vinto con la scuola federale, con una filosofia di spiccato senso di appartenenza ai colori azzurri; questo può essere un progetto recuperabile».
Ecco, più che l’annuncio sul nuovo CT (che potrebbe essere a questo punto Gigi Di Biagio, ma non è detto, il progetto può anche partire da zero creando un team federale guidato da un “grande vecchio”), a far piacere è il passaggio sull’appartenenza ai colori azzurri, che non è come l’appartenenza ad una squadra di club, concetto retorico ripetuto da allenatori e calciatori ad ogni cambio di casacca. Le squadre di club sono tante. L’identità nazionale è una. E non si sceglie. Si sente. Nel calcio ancor più che nella vita: puoi avere due nazionalità, ma se sei un calciatore devi scegliere per quale Nazionale giocare. E non puoi più cambiare.
Nell’immaginario collettivo, le nazionali (di calcio, ma non solo) hanno sostituito gli eserciti. Per fortuna, almeno in Europa, ci si scontra più sui rettangoli di gioco che nelle trincee. I calciatori, i cestisti, i pallavolisti, i rugbisti sono più famosi dei generali e gli allenatori hanno più visibilità dei leader politici. Il concetto di nazionalità, pur in un’epoca multiculturale e globalizzata, ha ancora un suo fondamento di rappresentatività per una comunità (e infatti per indicare una squadra nazionale spesso si usa il termine di “Rappresentativa”). Non solo chi veste la maglia azzurra “rappresenta l’Italia” ad una competizione internazionale, ma si presuppone che la squadra azzurra sia in qualche modo “rappresentativa” di un movimento: ne sintetizzi, cioè, le peculiarità, la filosofia, persino pregi e difetti.
Allo stesso modo il suo allenatore: una doppia responsabilità, quindi. Inoltre, la Nazionale, per sua definizione, esprime il meglio del movimento calcistico della nazione (non a caso viene spesso definita anche come “Selezione”, “Selección” nei paesi di lingua ispanica) ed esserne nominato alla guida dovrebbe costituire il coronamento della propria carriera sportiva: un vanto, un orgoglio, ma anche – come detto – una responsabilità. Potremmo sbagliarci (lieti di essere smentiti alla prossima conferenza stampa) ma la sensazione è che per Antonio Conte la nomina a Commissario Tecnico della Nazionale Italiana non sia stata nessuna di queste cose. O perlomeno non solo.
Alla luce di quanto sta succedendo, possiamo dire che la nomina a CT, per Conte, è stata anche e soprattutto un trampolino di lancio verso una carriera internazionale, visto che la sua esperienza sulla panchina juventina a livello europeo gli aveva regalato solo figuracce e visto che dopo le sue dimissioni di due anni fa, a ritiro già cominciato, avrebbe rischiato di rimanere fermo per un anno prima di un’offerta valida. Eppure, per accettare si è fatto pregare… e pagare, chiedendo una montagna di soldi, parzialmente coperti dallo sponsor, come ha ricordato lo stesso Tavecchio annunciando (e motivando) il cambiamento di rotta.
Pur non raggiungendo risultati memorabili (anche in questo caso: lieti di essere smentiti ai prossimi Europei), grazie all’Italia Conte è diventato un allenatore di prestigio e visibilità internazionale, aggiungendo nel curriculum le esperienze per spiccare il volo oltre i confini nazionali.
Tanti auguri a lui. Non ne sentiremo la mancanza. E tanti auguri soprattutto al suo successore. L’appello a Tavecchio è sempre lo stesso: il calcio è amore, ci regali un CT che ci ami e non ci tradisca alla prima proposta di un club.