Liverpool-Borussia Dortmund è stata celebrata ovunque, (stra)giustamente, come uno spot assoluto per il calcio. Una grande partita, in un grande stadio, tra due grandi squadre e con un pubblico meraviglioso. Sulle pagine del Napolista, così come in tutti gli altri media che parlano di sport, il protagonista però è unico. Ed è sempre lui: Jurgen Klopp.
Il personaggio è affascinante, senza dubbio. Un allenatore ma anche un vero e proprio uomo di spettacolo calcistico. E non nell’accezione negativa che va al di là del campo, o meglio non solo: Klopp è uno che fa spettacolo da solo, che lo fa fare alle sue squadre. E che dice cose belle e importanti. Cose che restano nella mente: il discorso alla sua squadra nell’intervallo di giovedì sera, raccontato alla grandissima da Mario Colella sul Napolista, ma anche quotes indimenticabili fuori dal campo. Sicuramente frutto di una strategia comunicativa pianificata, studiata, ma a noi piace immaginare che non sia così. Che la frase «io non lavoro per la squadra migliore al mondo, ma per batterla» sia veramente stata pensata e in un attimo detta, spontaneamente, da Jurgen Klopp.
Che la narrazione di una splendida partita di calcio sia così legata a uno dei due allenatori, pur in una contorta quanto lirica “storia da ex”, ci dice e ci conferma che stiamo vivendo l’era dei grandi allenatori. Cioè: i protagonisti, oggi, sono loro. La sera prima di Liverpool-Borussia, l’Atletico Madrid ha compiuto un’impresa clamorosa, eliminando i campioni in carica del Barcellona dalla Champions League. Due a zero, doppietta di Griezmann. Alzi la mano chi ha letto, sentito, visto, della prestazione dell’attaccante francesa. Adesso la alzi chi ha letto, sentito, visto l’aggiornamento della storia del Cholismo. Di Simeone, di come motiva la sua squadra di onesti mestieranti, di come sia arrivato, con un fatturato inferiore a quello dei top club, a battere proprio quegli squadroni. Le immagini dell’ex centrocampista di Inter e Lazio che aizza il suo stadio, il Vicente Calderon, sono state più viste del calcio di rigore segnato a tre minuti dalla fine da un attaccante nato in Francia e cresciuto nella Real Sociedad. Una bella storia, quella di Griezmann. Solo che c’è Simeone a rubare la scena. Il Cholismo, che ha una cacofonia troppo più bella di un Kloppismo che esiste ma non viene chiamato così.
Gli -ismi degli anni Duemila sono quelli degli allenatori. Pensateci: mourinhismo, guardiolismo, bielsismo. Un po’ più indietro il sacchismo. Comincia con Arrigo, in verità, il culto della personalità degli allenatori. Quasi in contrapposizione con quello che, nei suoi anni al Milan, è l’avversario numero uno. Diego Maradona, ovviamente. Il calciatore che vince da solo contro l’organizzazione tattica, l’ossessività negli schemi, la sistematicità del pressing. Il sacchismo segna gli anni Novanta, mai un allenatore è penetrato così nell’immaginario collettivo. Non si è mai sentito parlare di rocchismo (da Nereo), trappismo (questa è facile) o bearzottismo. No, tutto parte da Sacchi. E cresce, piano piano, fino ai giorni nostri.
Perché se il profeta di Fusignano è uomo fondamentalmente di campo, che in campo sfoga la sua rivoluzione tattica, culturale e di approccio (memorabili i cazziatoni ai suoi calciatori, sebbene fossero semplicemente i migliori al mondo), quelli che vengono dopo ampliano il raggio. Le conferenze stampa, le esultanze e gli isterismi in panchina, le dichiarazioni estemporanee. Anche i provvedimenti disciplinari, perché no. Pensi a Mourinho, alla sua lotta contro il sistema italiano ai tempi dell’Inter o alla dittatura catalana nella sua esperienza al Real. Anche cose sbagliate, per carità. Ma tutto, proprio tutto, frutto di una strategia ben definita perché loro, ora, sono il centro di attenzione mediatica.
Abbiamo vissuto, in piccolo, la stessa cosa anche a Napoli. Ci siamo adeguati piano piano, partendo dal culto appena accennato di Mazzarri. Che ha scatenato il confronto continuo col suo successore, ancora oggi si sente parlare del “Napoli di Mazzarri” come se fosse un’entità spirituale diversa. Con Benitez siamo cresciuti, perché lo spagnolo è figlio di questi tempi e del grande calcio degli anni Duemila: conferenze stampa storiche dall’altissima audience, visite alla città divisa tra rafaeliti e anti-rafaeliti. Come se in campo andassero ogni domenica undici Benitez. Non è colpa di nessuno, non è stato e non è sbagliato. Come il sarrismo di oggi, che esiste e che quindi ci equipara al grande calcio degli -ismi legati agli uomini della panchina. Oggi comandano loro, gli allenatori. E tutto si adegua a quello che fanno, in campo e fuori.
L’esempio più lampante è quello del guardiolismo: prima il Barça, il gioco più bello del mondo, rivoluzionario, la configurazione sociopolitica catalana e i trionfi in serie in campo. Poi la Germania: il Bayern inizia a giocare il Tiqui-Taca, che quindi diventa Tiki-Taken, il possesso diventa l’arma principale dei tedeschi che oggi giocano bene al calcio e fanno scuola per raffinatezza (impensabile pensare alla Germania di Schon o Beckenbauer come a un’Olanda dal calcio spettacolare). Poi la vicenda del passaggio al Manchester City, un annuncio a febbraio e un sorteggio Champions che vive sul possibile incrocio tra il presente e il futuro dell’allenatore. E le voci di mercato per i Citizens di domani, e le discussioni se sia giusto dire così tanto tempo prima che vai via e dove andrai ad allenare. Un bombardamento mediatico continuo, con un solo protagonista. Più sottile invece il riferimento al bielsismo, che ha una diversa dimensione sociale (Bilbao, Marsiglia, il Cile e l’Argentina: tutte realtà particolari) e che vive su un indimenticabile discorso di cultura sportiva ai giocatori del Marsiglia e di un’ossessività totale per il controllo di tutto ciò che accade in campo. Di cholismo e mourinhismo abbiamo già parlato, Klopp è il protagonista assoluto degli ultimi giorni e aggiungere qualcosa è francamente fuori luogo.
Ecco, appunto. Alla fine, anche noi ci siamo piegati. Un pezzo che dice che gli allenatori sono diventati, a torto o a ragione, protagonisti sovraesposti rispetto al campo e ai calciatori, finisce per parlare solo di loro. È il calcio del Duemila, anzi degli anni Duemiladieci. E i protagonisti sono loro. Perché piacciono, perché dividono. Perché fanno leggere e raccontare, si fanno leggere e raccontare. Più dei calciatori, molto di più. Soprattutto quando vincono, ma anche quando non succede. Come ai Mondiali del 2010, quando per la prima volta Sky propose un canale alternativo in cui una telecamera, durante le partite, inquadrava solo la panchina e il suo occupante. Il ct dell’Argentina in Sudafrica era Diego Armando Maradona.