Roberto Donadoni è stato allenatore del Napoli per pochi mesi. Fu una toccata e fuga, un colpo di scena tentato da De Laurentiis (dopo l’esonero di Reja) quando forse, ancora, non era il momento. Donadoni arrivò al Napoli subito dopo aver allenato la Nazionale, in un’esperienza simile a quella partenopea: senza infamia e senza lode, un addio annunciato e necessario al sorgere delle prime difficoltà.
Eppure Roberto Donadoni è uno dei migliori allenatori italiani per risultati e piazzamenti ottenuti. Basta guardare il suo curriculum, anche solo su Wikipedia, per rendersi conto di come le due uniche esperienze negative della sua carriera siano quelle colorate d’azzurro. Quello della Nazionale e quello del Napoli. Tutto intorno, una serie praticamente infinita di obiettivi raggiunti, di cose belle, di squadre fatte rendere ben oltre le proprie possibilità. Lo stesso disastrato Parma 2014/2015, già fallito, è stato accompagnato per mano da Donadoni verso una retrocessione dignitosa. Tra andata e ritorno, i gialloblù l’anno scorso fermarono Inter (due volte, una vittoria e un pareggio), Napoli, Roma e Juventus. 26 punti totali al netto della penalizzazione, alla faccia del tracollo societario che ha investito il club.
Prima ancora, Donadoni aveva conquistato la qualificazione all’Europa League e due posizionamenti a metà classifica (sempre col Parma), una salvezza comoda col Cagliari, due campionati da grandeur a Livorno. Quelli che gli erano valsi la chiamata in Nazionale senza la benedizione di qualsivoglia esperienza in un club di alto livello. Subito dopo il Mondiale, poi. Partendo da questi dati, l’esperienza come Ct fu poi così negativa: una qualificazione all’Europeo in un girone complicato (con Francia, Ucraina e Scozia), un torneo in Austria e Svizzera perso solo ai rigori contro la Spagna che di lì a poco avrebbe conquistato tutto quello che si poteva conquistare.
Il solo buco nero, quindi, è Napoli. E fu un peccato, ma solo per lui. Perché dal ribaltone di ottobre, subito dopo Roma-Napoli 2-1 (sette punti in sette partite), De Laurentiis pescò Mazzarri e lanciò la rincorsa al primo grande Napoli della sua gestione. Sesto posto, prima qualificazione all’Europa League di una serie che è aperta ancora oggi. E che, riconosciamo questo merito al tecnico bergamasco, nasce da una squadra costruita per Donadoni e allenata da Donadoni per un’estate intera. Il calciomercato più dispendioso del Napoli: Zuniga, Cigarini, Quagliarella, De Sanctis, Campagnaro, Hoffer per un totale di 50 milioni di euro. E Di Natale rifiutò. Il ricordo di Donadoni di quei sette mesi a Napoli (19 partite in tutto, appena 5 vittorie) è legato più alle difficoltà per affermarsi in società che al lavoro sul campo: «Napoli è una realtà grandissima, una città di grande passione, allenare lì è chiaramente un passaggio importante all’interno di una carriera da allenatore, quindi anche della mia. Non ho avuto grande fortuna perché era una situazione un po’ particolare della società in quella stagione, ma ha arricchito il mio bagaglio d’esperienza». Il ribaltone d’ottobre coinvolgerà anche Marino, che sarà sostituito da Bigon. Di quel periodo, a Napoli, cui si ricorda soprattutto di uno stop di destro che Donadoni fece davanti alla panchina addomesticando un pallone a campanile durante la partita col Livorno.
La sua esperienza al Bologna è sintomatica del grande allenatore ancora in evoluzione che prova ancora a venir fuori per un’altra esperienza in una grande. Perché se da un lato c’è una squadra praticamente galvanizzata dal suo arrivo (Delio Rossi, suo predecessore aveva messo insieme 6 punti in 10 partite; Donadoni ne ha totalizzati 31 in 23, con 4 sconfitte nelle ultime 5 ad abbassare un po’ la media), dall’altra ci sono le nuove dichiarazioni d’amore per il posto da Ct, che si libererà dopo l’Europeo di Conte. Dopo il pareggio di Roma, dichiarò candidamente: «Io prossimo commissario tecnico? Non c’è niente a cui debba rispondere. Tutti gli allenatori avrebbero piacere ad allenare la Nazionale, se qualcuno dicesse una cosa diversa vorrebbe dire che non ama la sua professione e non ama il suo paese». In un’intervista uscita qualche giorno fa nel nuovo numero di Rivista Undici, il tecnico bolognese ha rilanciato ancora questa sua visione delle cose: «Io il ct lo rifarei. Mi piace quel tipo di responsabilità».
Donadoni vive da tempo all’interno di questo circolo ristretto di papabili. Per le grandi squadre, Nazionale compresa. A ogni giro, si fa il suo nome per la panchina del “suo” Milan. Sarebbe forse il giusto coronamento per una carriera circolare e positiva da galantuomo prima che da tecnico preparato e competente, in grado di evolversi dal sacchismo degli inizi fino al più elastico dei campionari tattici. Oggi affronta il suo passato, l’unico buco nero di una storia da allenatore che è un po’ come quei film di formazione in cui non c’è mai il colpo di scena inaspettato. Già all’andata seppe bloccare il Napoli, grazie all’arma del pressing a tutto campo in una partita perfettamente preparata e interpretata dai suoi. Ci riproverà per coronare una salvezza che sarebbe sacrosanta quanto meritata, per quello che si è visto in campo. L’ennesima conferma: Donadoni è uno dei migliori allenatori italiani. E non è ancora troppo tardi per accorgersene.