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C’erano una volta gli allenatori all’italiana, in Serie A non è più così

Forse il più italianista è Allegri. Gli altri, da Sarri a Montella, da Spalletti a De Boer, fino a Di Francesco, praticano un gioco propositivo.

C’erano una volta gli allenatori all’italiana, in Serie A non è più così

Oggi abbiamo letto l’intervista di Arrigo Sacchi e ci siamo sentiti un po’ orgogliosi. Non fosse altro, del fatto che uno degli allenatori più importanti della storia del calcio, un visionario del gioco offensivo, abbia definito il Napoli di Sarri come «una delle poche squadre con identità del calcio italiano». Quindi, per dirlo all’americana: Napoli rulez, nel senso che in campo diamo vita a un modello di gioco (dai tempi di Benitez) che rappresenta una svolta tattica e spettacolare nello scenario del calcio italiano. I tifosi azzurri, anche quelli più critici, non possono assolutamente contestare il primato estetico costruito in campo da Sarri e dai suoi ragazzi nell’ultimo campionato.

Bene. Detto questo, poi, ci siamo un po’ incuriositi. Nel senso: se l’oro del Napoli è quello che luccica, almeno dal punto di vista strettamente tattico, il resto cos’è? Come si gioca, oggi, in Italia? Abbiamo letto l’ultima classifica, e ci siamo sentiti un po’ estranei alle dichiarazioni di Sacchi, al di là dell’orgoglio: Allegri, Sarri, Spalletti, De Boer, Paulo Sousa, Di Francesco, Montella. Due soli cambi, nella rosa dei tecnici delle prime sette, rispetto allo scorso anno. Due cambi (Inter e Milan) che però avallano la seguente teoria: il calcio italiano sta scegliendo allenatori che giocano a pallone. E che lo fanno in un certo modo.

Certo, parliamo di stili di gioco completamente diversi: se Sarri, Spalletti e Di Francesco sono i profeti dello spettacolo più puro, Paulo Sousa è l’uomo dell’intensità e Montella tenta di riprodurre il Tiqui-Taca in una versione made in Italy. Su De Boer circolano giudizi curiosi e presentazioni particolari: da buon figlio di Van Gaal, è un artigiano del talento ma anche allenatore dagli schemi fissi, ancorché molteplici, e con il 4-3-3 come modulo di riferimento. Il campione in carica, Allegri, ha la squadra più forte ed è probabilmente – tra tutti questi suoi colleghi – il più italianista. Solo che, rispetto all’interpretazione prettamente difensiva che il passato ci ha insegnato a fare di questa aggettivazione, stavolta parliamo di cose diverse: adattamento all’avversario e al contesto, slow play, dominio emotivo e fisico, prima che tecnico e tattico, della partita. Inoltre, la “svolta” della sua nuova Juventus sembra in qualche modo seguire la new age del calcio italiano: Pogba è un calciatore sopraffino ma non un palleggiatore alla Pjanic. Lo stesso passaggio da Mandzukic a Higuain presuppone uno sviluppo meno fisico del gioco, a favore di una manovra più fluida. Tutto questo, ovviamente, in teoria. Nella pratica, chissà.

La stessa storia di Allegri alla Juventus racconta di come Sacchi, quando chiede un atteggiamento (questo il termine giusto, perché il modulo è solo una conseguenza) meno speculativo, abbia ragione: la sua Juventus con 4 difensori e il tridente (pur finto) Vidal (Pogba) – Tevez – Morata è arrivata in finale di Champions; l’edizione dell’anno scorso, bellissima a Monaco di Baviera ma con un atteggiamento diverso, è andata fuori agli ottavi. Contro uno squadrone, certo. A causa di episodi sfortunati, ancora più certo. Ma intanto è andata fuori.

Si potrebbe rapportare questo discorso sull’Europa al campionato italiano, con ruoli diversi: se la Juventus ha i giocatori migliori, il Napoli e le altre squadre stanno provando a colmare il gap con i bianconeri attraverso il gioco, attraverso una proposta tattica, se non spettacolare, almeno più spregiudicata. Meno paurosa impaurita. Come messo in pratica dalla prima Juventus di Allegri fino alla finale di Berlino, meno l’anno scorso quando la sfortuna, ma anche decisioni tattiche rinunciatarie nella ripresa, hanno in qualche modo determinato il risultato di Bayern-Juventus. Una partita giocata alla pari dai bianconeri all’Allianz Arena, anzi addirittura meglio rispetto alla squadra di casa. Che però, con Coman, ha vinto. La Juventus, con Mandzukic per Morata, ha invece perso.

Allegri, quindi, e dopo tutti gli altri. In un domino di proposte alternative, soprattutto per la storia del nostro calcio. Un’inversione di tendenza: Sarri e la sua manovra verticale e di possesso, Spalletti e il tridente offensivo con El Shaarawy, Perotti e Salah (determinante, da gennaio in poi, nella grande rincorsa giallorossa), Paulo Sousa e la Fiorentina più intensa ma anche equilibrata che si ricordi (soprattutto nella prima, bellissima parte dello scorso campionato). Una varietà di alternative che puntano tutte all’imposizione del gioco, di quel ritmo “europeo” che Sacchi sostiene essere carente nel nostro campionato. E che invece sta “rinascendo”, attraverso le grandi squadre che si affacciano in Europa, che portano avanti progetti tecnici e societari credibili e coerenti (lo stesso Sassuolo di Di Francesco, splendido ieri sera nel playoff di Europa League contro la Stella Rossa, è un esempio di organizzazione attack-oriented) con le proprie dimensioni. Sacchi, non a caso, nell’intervista ammette che «Empoli e Sassuolo lo incuriosiscono». Anche nella piccola borghesia, forse, assisteremo a qualcosa di nuovo: la realtà neroverde e dell’ex club di Sarri, la scelta della Sampdoria di affidarsi a Giampaolo e quella dell’Atalanta di dare fiducia a Gasperini teorico di un gioco quantomeno equilibrato e non “difensivo”. E poi Rastelli a Cagliari ed Oddo a Pescara, di cui abbiamo già parlato qui. Le neopromosse che vanno in Serie A per giocare, non per avere paura. Sacchi dice più o meno le stesse cose da due decenni, e vent’anni fa come oggi ha perfettamente ragione. Solo che il vento, forse, sta cambiando. 

E se poi dite che vince solo la Juventus, che alla fine vince la Juventus che gioca all’italiana, allora forse avete ragione voi. Allo stesso tempo, però, avete dimostrato esattamente quello che dice Sacchi: «I giocatori della Juventus, individualmente, sono i migliori. Adesso devono diventare più “europei”, essere più propositivi nel gioco. Le squadre italiane, e la Juve non fa differenza, quando vanno in vantaggio tendono ad arretrare, a chiudersi, a difendere l’1-0. A me, invece, piacciono quelli che continuano a dominare, che fanno il loro gioco indipendentemente dal risultato. In Europa questa filosofia è vincente». Il fatto che i bianconeri non abbiano (ancora) vinto in Europa, dove semplicemente non sono i più forti per distacco, dovrebbe farvi e farci riflettere un po’ tutti. Il fatto che quest’anno si accingano a provarci di nuovo attraverso un qualcosa di diverso, dovrebbe farvelo e farcelo fare ancora di più.

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