Sarri ha i suoi pregi e i suoi difetti. Ma la tuta è lui, il suo calcio e il suo stile di vita. All’Italia non andava bene nemmeno Rafa in giacca e cravatta.
Quanta strada aggio fatto
pe’ sagli’ sta furtuna
mmiez’ ‘a gente distratta
io nun ero nisciuno
Sanremo 1999 – quello di Fabio Fazio con Laetitia Casta e Dulbecco – Nino D’Angelo presenta al Festival dei fiori la canzone “Senza giacca e cravatta”. Il testo ben si adatta al nostro Maurizio Sarri, a quello che in tanti definiscono un cliché, insomma al modello che lo rappresenta e che lui contribuisce ad alimentare. Senza giacca e cravatta, appunto. E per questo meno tutelato dalla classe arbitrale, meno considerato. Ieri sul Napolista si è espresso il sociologo dello sport Luca Bifulco. Sempre ieri il Corriere della Sera ha dedicato un corsivo pedagogico intitolato “Quando la tuta diventa una forma di schiavitù” con la prevedibile lezioncina di vita impartita all’allenatore, efficacemente sintetizzata dall’inciso “(apprezzabile comunque il passo avanti: mesi fa avrebbe specificato «che un frocio in doppiopetto»)”. Sta bene.
Maurizio Sarri sembra incline all’alibi. Ce l’ha per vizio. La temperatura, l’umidità, le condizioni del campo, il pallone. Per noi, che abbiamo avuto in panchina Walter Mazzarri, è naturale fare riferimento a un mazzarrismo inestirpabile dentro di lui. Per noi, che abbiamo amato e ancora amiamo Rafa Benitez, Sarri dovrebbe incarnare un ritorno al passato. Anche noi scrivemmo della tuta, con un divertito e ironico Michele Fusco (che ovviamente fu aspramente criticato). Eppure qualche pensiero diverso ci raggiunge. Ciascuno di noi si ritaglia e si lascia ritagliare un personaggio, ciascuno di noi si sente più a proprio agio in un determinato contesto. È vero che Maurizio Sarri ha vissuto tutti i gradini della gavetta calcistica e si avverte il suo malumore per questo, è altrettanto vero che lui ha lottato per togliersela letteralmente di dosso quella giacca e quella cravatta che il suo precedente lavoro gli imponeva.
Ha scelto il calcio al lavoro in banca e non lo ha fatto per soldi: adesso guadagna certamente di più ma all’epoca la sua fu una scelta coraggiosa. Ha scelto il calcio anche perché voleva liberarsi della giacca. C’è l’elemento imprescindibile del gioco e quello, altrettanto importante, dell’insegnamento. La concezione del calcio di Maurizio Sarri è anni Ottanta, quando erano in tanti ad andare in panchina con la tuta (forse si trova qualcuna foto persino di Liedholm). Il suo calcio di riferimento è quello. Non certo il calcio degli allenatori metrosexual.
Non è una difesa d’ufficio di Maurizio Sarri. Alcuni suoi aspetti, su tutti il mazzarrismo, sono difficilmente sopportabili, così come la retorica del popolo utilizzata lo scorso anno alla vigilia della sfida a Torino contro la Juventus, il suo apparire talvolta quasi scontento quando invece è alla guida di una signora squadra. Ma una persona va accettata per come è, con tutti i suoi aspetti: quelli che ci procurano gioie (e sono tanti) e quelli che ci infastidiscono.
È difficile non ricordare come al cosiddetto “sistema” giornalistico (e non solo) non andasse bene nemmeno un personaggio quasi antitetico a Sarri qual è Rafa Benitez: sempre in giacca e cravatta, eppure chiatto, incapace, schernito quasi come se fosse un ciarlatano. Così come appare naturale notare come, all’indomani della storica scena di Spalletti sdraiato in versione Wily Coyote affranto e incazzato per non aver preso Bip Bip, l’allenatore da catechizzare resta sempre Sarri. Così come nessuno ha notato che ha di fatto incassato quasi senza fiatare il clamoroso torto arbitrale subito a Pescara. Fateci caso, c’è sempre una cifra educativa nei pensosi articoli o servizi che riguardano Napoli: i modi del presidente, dell’allenatore, della tifoseria e persino l’esultanza dei giocatori. C’è quasi sempre un sorrisino che accompagna il Napoli nella “narrazione” (perdonatemi) dei colori azzurri, sempre improntata allo stereotipo dei napoletani che la mattina fanno colazione mangiando gli spaghetti con le mani (qualcuno sta per dire: e allora perché avete difeso Alvino? Lo abbiamo spiegato qui, lui fa la telecronaca del tifoso, è racchiuso in una cornice specifica).
Sarri va per la sua strada. Può essere un limite, non lo neghiamo. Ci siamo anche resi conto delle due zeppate in due giorni che gli ha lanciato De Laurentiis (ci torneremo). Rischia di rimanere vittima del suo personaggio, come quasi tutti del resto. Ma così è arrivato dalla Sansovino al Napoli e così prosegue. Col mozzone di sigaretta in bocca, la tuta, quel suo modo di pensare, che pure oggi cozza col suo conto in banca, e le sue convinzioni calcistiche che hanno regalato al Napoli il gioco più bello d’Italia. Se fosse stato all’Inter, sarebbe magari diventato un’icona. Sarri è il nostro allenatore, così come lo era Benitez (e Mazzarri). Anche noi lo preferiremmo meno lamentoso e più orgoglioso di questo Napoli, più portabandiera, ma siamo certi che se sabato sera fosse stato espulso in perfetto smoking il giorno dopo qualcuno avrebbe scritto: “Sarri, rimetta la tuta e torni se stesso”.