Ventiduesima e ultima puntata del romanzo “Hard Boilin’ Football” di Pasquale Guadagni.
L’indomani mister La Cruz, in preda ad un sacro fervore, uscì prestissimo dalla pensione in cui aveva preso alloggio con Orson, montò su un taxi e si fece portare al palazzo della flotta Lauro, deciso ad aspettare l’arrivo del Comandante. In un bar adiacente si munì di Cinzano e iniziò a fare su e giù sul marciapiede, sentendosi protagonista di una missione diplomatica destinata a fare epoca nella geopolitica del calcio europeo. Il Comandante arriverà tra poco, me lo sento – pensava Reginaldo tra sé – dopo la vittoria di ieri avrà in mente di accelerare il suo piano d’assalto alla FIAT. Ancora poco tempo e sulla carrozzeria di tutte queste macchine sarà appiccicata la targhetta Motori Lauro, ci sarà la Lauro 500 e il Napoli sarà la corazzata calcistica della prima industria italiana. Il Comandante si commuoverà vedendomi tornare da lui, dopo che il destino ci aveva separati per trent’anni, basterà uno sguardo e ci metteremo a discutere per fare del Dinamis la succursale tessala del Napoli. Crociere gratis, scambi privilegiati di giocatori, tre promozioni consecutive e poi campioni di Grecia! Coppa dei campioni! Nell’immediato una bella amichevole, ma un giorno il Dinamis verrà qui a giocarsi la Coppa dei campioni! Egeiros non ci potrà credere! Avrà pensato che me ne andavo con Orson a placare un’incazzatura in qualche monastero sperduto, e tornerò da lui con carta bianca per portare il Dinamis nel calcio europeo! Presto i suoi liquori arriveranno a Patrasso sulle navi della flotta Lauro, a getto continuo.
Ma statemi a sentire! Con i miei taralli vi dovete bere una bella Peroni, no quella schifezza là. Il venditore del chiosco sul molo di Mergellina cercò invano di convincere Orson che l’ouzo era inadatto ad accompagnare la fragranza salata dei taralli con la sugna e il pepe, chi viene da altre latitudini fatica non poco ad accogliere certe consuetudini di un altro posto, praticate in automatico, come azioni inevitabili. Orson si era svegliato molto più tardi del mister, era andato in riva al mare e al sole tiepido di una primavera anticipata si sdraiò sugli scogli di Mergellina, sorbendo ouzo e taralli nella mollezza inoperosa di un lunedì mattina, che condivideva, tra quelle pietre bianche, con qualche coppietta e un paio di vecchi con la canna da pesca, immobili, che sembravano sperare che nulla abboccasse ai loro ami, per sottrarsi al disturbo di tirare su la lenza e vedere che era successo. Si assopì dolcemente e sognò il portiere del Napoli Bandoni, che in allenamento parava in presa un rigore affilato di Bean, poi correva con la palla tra le braccia e, arrivato davanti all’occhio del sogno, la mostrava protendendola in avanti e urlava ad Orson che il suo premio era arrivato, che la sua Rosebud era finalmente impaniata. Svegliato dallo stordimento, il portiere si alzò velocemente e si allontanò, lasciando tra gli scogli un ultimo tarallo, a ristorare la visione che lì lo aveva sorpreso.
Vagabondando senza meta, Orson entrò in un cinema che proiettava Le mani sulla città. In sala, prima dell’inizio, un gruppetto di persone vocianti faceva capannello intorno a due spettatori e sgomitava per tornarsene al suo posto con il trofeo di un autografo. Orson si unì al mucchio senza convinzione, tanto per prendersi il suo autografo sulla carta dei taralli, pensando che quei due fossero attori del film. Senza saperlo, sarebbe tornato in Tessaglia con il souvenir degli autografi di Claudio Bandoni e Dino Panzanato, portiere e difensore che, insieme alle stelle di Sivori e Altafini, a Juliano, a Cané e a tutti gli altri, scrissero la storia del Napoli di quegli anni. Il film entusiasmò Orson, uscito dal cinema iniziò a girare per santa Lucia e pensava che il protagonista era un vero gangster moderno, capace di farsi rispettare come un galantuomo dalla gente che conta, capace di coagulare interessi politici che ne restituivano al senso comune un’immagine di benefattore. Sarà ispirato a qualche vero pezzo grosso – pensava tra sé – chissà, dietro quella maschera potrebbe esserci addirittura Lauro, che ora starà versando un Cinzano al mister. In Tessaglia neanche lo sappiamo, ma a Napoli già circolano film che raccontano quello che succederà da noi tra qualche anno, quando entreremo nell’Europa che conta. Entrò nel ristorante California e prese posto nella veranda sulla strada, ordinò dell’ouzo e il cameriere gli portò una sambuca Molinari con dei chicchi di caffè in un piattino. Non me lo sono inventato io – pensò Orson – a Napoli l’ouzo lo correggono tutti col caffè.
Nel primo pomeriggio, mentre La Cruz vuotava la seconda bottiglia di Cinzano, una FIAT di grossa cilindrata fermò davanti al palazzo della flotta. Un uomo seduto accanto all’autista scese e aprì lo sportello posteriore, da cui uscì di scatto Achille Lauro in persona, che si avviò velocemente verso l’ingresso, per scartare alla spicciolata qualche giornalista che stazionava lì fuori. Con la bottiglia stretta nella mano sinistra, Reginaldo si fiondò verso il Comandante sbracciando. Amico mio, guardate chi vi è venuto a trovare! Egidio La Croce! L’accompagnatore di Lauro, temendo si trattasse di uno squilibrato disposto a colpire con quella bottiglia, si frappose energicamente, afferrò il polso del mister, la bottiglia cadde a terra sputando l’ultimo sorso di Cinzano. Voi pennaruli siete sempre gli stessi – fece Lauro ai giornalisti che lo strinsero. Il Napoli perde e Achille Lauro è un cornuto, il Napoli vince e Achille Lauro è un santo. Abbiate pazienza, sto faticando. La guardia del corpo aveva imposto una mano enorme sulla bocca di La Cruz, che in un estremo impeto gli assestò una testata sullo zigomo. Reginaldo si ritrovò in ginocchio tra cocci di bottiglia, libero dalla presa e urlò a squarciagola. Comandante! Comandante! Bastardo! Comandante!