Il Cardarelli e una circolarità che da Lucy Barton torna a Elizabeth Strout, attraverso Franchini e tutti noi che ci siamo stati.
Tutti abbiamo avuto a che fare col Cardarelli, che solo fuori da Napoli potrebbe far pensare a una confidenza col «più grande poeta italiano morente», come diceva di lui Dino Risi dopo avergli visto indossare tre cappotti uno sopra l’altro, in piena estate. No, parlo del più grande ospedale del meridione d’Italia, che prende il nome da Antonio Cardarelli, clinico, e non da Vincenzo, poeta. Un luogo di cui i napoletani non parlano volentieri, anche se hanno una storia a lieto fine in biografia. Gli ospedali, da quasi tutti i meridionali almeno quelli fino alla mia generazione, sono un punto da evitare, un ricordo da rimuovere, di cui si può riparlare solo come mezzo di conforto per altri, come vissuto comune in un discorso di sollievo per morale e salute, insomma, si usa solo come esempio per farsi coraggio, è l’argomento da ripescare in caso di visita a un ammalato o peggio a un morto. Io pure non ne parlo volentieri ma da anni conservo storie sull’ospedale a partire dalle mie esperienze. Il primo ricordo è una giornata di sole, una delle tante a Napoli: direte, anche se questo è un dato da contestare ma ora non ho tempo, leggete “Malacqua” e capirete; una giornata d’inverno ma col sole, di quei soli che trasformano le persone in lucertole, costringendole a fermarsi per incamerare come pile il calore. Molte di queste pile o lucertole o persone – scegliete – erano infermieri del Cardarelli, li ricordo sparsi sui muri tra entrata del reparto e stradoni: il Cardarelli è un parco ospedaliero, con edifici che fungono da reparti, oltre l’unità centrale, la parte storica con l’entrata classica che trovate nelle cartoline e sui giornali. In mezzo a queste gente stesa al sole e vestita di bianco, che oggi potrei dire come in una foto di Irving Penn, passiamo io, mio padre e mio fratello, per raggiungere il reparto di ortopedia dove era ricoverata mia nonna per un intervento all’anca, e dove ad assisterla c’era mia madre. E credo ci fosse anche mia zia, che avendo un figlio medico – che per me era una serie di cartoline da posti assurdi come il Vietnam, la Cambogia, l’India, il Congo, l’Iraq e non so più che altro – era quella con la delega al racconto e ai referti di ogni ammalato in famiglia. Oltre la sua voce che ci spiega dell’operazione della nonna – in pratica le avevano messo una protesi di porcellana – ricordo con precisione il disegno che mi ero fatto del medico M., un professorone di cui per mesi si era parlato, vagliando i pro e i contro prima di sceglierlo come esecutore della sostituzione osso-porcellana, e tra le tante cose sopravvissute al tempo c’erano il suo carattere burbero: una sorta di Dr. House molto prima della serie, che però veniva giustificato da tutti – assistenti e degenti – per via della bravura, e il fatto leggendario che fumasse in sala operatoria, facendone una sorta di pirata ospedaliero. Anni dopo, per quelle coincidenze da romanzo che non mi spaventano più, mi ritrovai involontariamente ad assistere al suo funerale senza poter condividere i miei ricordi con nessuno. Tutta questa nuvola di storie e fumo in sala operatoria, con la radiocronaca di mia zia, aveva come colonna sonora le urla degli ammalati e soprattutto un avvolgente odore di brodo vegetale cucinato su un fornellino dalla famiglia di una bambina che condivideva con la nonna uno dei due letti della stanza. Ancora oggi non mangio il brodo per questo motivo, una madeleine di schifo, a base vegetale, che mi porta a quella stanza, alla smorfia di dolore di mia nonna, che nonostante tutto promise giocattoli a me e mio fratello per ringraziarci della visita. Ricordo anche il ritorno a casa tra le urla di mio fratello che non voleva lasciare mia madre in ospedale; urla che crearono uno scompiglio da Risiko tra le pile, lucertole, persone, infermieri o comparse disposte al sole come una foto di Irving Penn. Anni dopo avrei letto tutto Raymond Carver nelle notti al neon al capezzale di mio nonno, e prima avrei scoperto Don DeLillo vegliando un mio amico che si era spaccato la mascella cadendo dalla vespa, e che avrei riportato lì costringendolo a togliersi i fermi, una gabbia che aveva in bocca, sì, una storia assurda; e poi ancora visite e notti, giornate tristi e altre di sola angoscia in attesa di tirare via un presagio, un alternarsi di assoluzioni e condanne, che poi è la scacchiera sulla quale ci muoviamo tutti. Avrete capito che oltre il cibo ci sono una serie di scrittori che mi riportano alle stanze dell’ospedale, una trama di pagine e dolori, malattie e romanzi, che si annoda, rimpinzando la memoria e disegnando il tempo che mi passa addosso. Da un po’ non aprivo la cartella “Cardarelli” sul desktop del mio pc, poi, nel giro di pochi giorni, l’intervista a una scrittrice americana: Elizabeth Strout; l’incontro con uno scrittore napoletano: Antonio Franchini; e la visita a un mio amico degente: A.; mi hanno costretto a riavvolgere i ricordi e metterli in fila. Ovviamente, questo è solo l’inizio, una possibile premessa del libro che immagino di scrivere da anni sulla frequentazione tra me e il Cardarelli, e sul rapporto di questo ospedale con la città, e su una mia vecchia convinzione: è negli ospedali e nei cimiteri che si trovano le risposte.
Quando avevo letto il romanzo “Mi chiamo Lucy Barton” di Elizabeth Strout, la scrittrice non era ancora stata a Napoli; ne aveva solo letto, come poi dirà in una intervista, nei libri di Elena Ferrante, e forse sapeva anche che la sua New York e quindi l’ospedale di Manhattan dove si svolge buona parte del suo romanzo, stanno sullo stesso parallelo della città del Cardarelli.
Quando avevo letto un racconto* di Antonio Franchini uscito su “Il Mattino” nel marzo del 2003, che raccontava il suo Cardarelli, non pensavo di intervistarlo anni dopo – dimenticandomi di chiedergli di quel racconto – , né immaginavo racconti miei, ma ritagliai la pagina poi perduta (oggi ho ritrovato il racconto grazie a Francesco De Core che ha avuto la pazienza di cercarlo nell’archivio de “Il Mattino, e che ha scritto su romanzi, scrittori e sud un libro: “Un pallido sole che scotta“). Però, ogni volta che mi son ritrovato nei corridoi del Cardarelli ho pensato al contrasto tra vita e morte che c’era in quella pagina di Franchini, al suo riportare le preghiere dei parenti guardando le statue di Padre Pio occupare militarmente gli angoli dei reparti sostituendosi a Madonne, Gesù e altri santi. Un santo immobiliarista, che pratica la stessa politica territoriale della camorra, si muove su esigenze immediate del popolo occupando gli spazi lasciati vuoti da altri tipi di speranze che dalla pancia sono salite troppo in alto per essere oggetto di preghiere o dialoghi.
E nemmeno quando ero stato a trovare il mio amico A. avevo pensato di mettermi a scrivere questo pezzo, poi, non trovando la sua stanza ho aperto la porta dell’infermeria e mi son ritrovato una vecchia amica di famiglia che era lì col ruolo di caposala, e dopo anche un ragazzino al quale prestavo i libri: divenuto anestesista; e tutta questa familiarità in un solo reparto, tra l’altro senza statue di Padre Pio, mi aveva fatto pensare alla territorialità del dolore e al rapporto familiare che abbiamo col Cardarelli, dove si incontra sempre qualcuno che conosciamo. Per dire, ora, mi son ricordato che uscendo dal reparto, dopo una notte al fianco di mio nonno, avevo trovato i carabinieri della stazione del paese di mio nonno, che erano lì perché uno di loro – che ricordavo anche io – si era tolto la vita, e, così, invece di fare colazione li avevo seguiti fino alla camera mortuaria – di cui parlava anche Franchini, tra l’altro.
C’è una circolarità in queste tre storie che si svolgono intorno al Cardarelli che potrei dire figlia di Paul Auster (giocando sull’asse Na-Ny, oltre che sul parallelo), perché il libro di Elizabeth Strout si apre con lei ricoverata per una appendicite – a Manhattan – anche se di finzione, prodotta dalla sua mente e che riguarda la sua protagonista; poi, lei verrà ricoverata al Cardarelli per una appendicite reale che riguarda lei, il suo corpo.
Il pezzo di Franchini comincia con una salita dai Colli Aminei e descrive il Cardarelli come una macchia di pini. Che è quello che ho visto e pensato andando a trovare A.; e solo ora mentre scrivo ed evoco ricordi, vedo oltre la caposala amica di famiglia, anche A., al mio fianco, quel giorno che portammo l’altro nostro amico a togliere i fermi dalla bocca – la gabbia dei denti, così chiamavano l’involucro di metallo che serviva a rimettere in sesto la mascella spaccata –, in una giornata di sole ma d’estate e quindi troppo calda per trovare pile, lucertole, persone e infermieri disposti come in una foto di Irving Penn. Non c’era nessuno, doveva essere agosto.
Dunque: la scrittrice Elizabeth Strout, Premio Pulitzer 2009, è a Napoli per ritirare il Premio Malaparte, si sente male, e viene ricoverata, come nel racconto di Antonio Franchini arriva in auto:
«Succede, quando si attraversa in macchina di notte una città sconosciuta, di passare davanti a uno scatolone illuminato come se vegliasse, e di capire subito che è l’ospedale».
La Strout racconta a Leonetta Bentivoglio di “Repubblica” la sua esperienza:
«[…] Ero in taxi con mio marito, Andrea e Gabriella, e rammento solo un percorso lungo e pieno di buche. Al pronto soccorso c’era un mucchio di gente, eppure qualcuno mi ha trasferito direttamente dal taxi sopra una barella. Poi hanno preso a farmi esami e mi hanno dato un antidolorifico. Andrea, che traduceva per me le parole dei medici, mi ha riferito che avevo un’appendicite e che si sperava di poter evitare un intervento dandomi delle medicine. Ero terribilmente confusa e ho pensato che sarei morta. Non avevo paura, forse perché il dolore era insopportabile […]».
La scrittrice americana non sa si essere finita nel grande romanzo napoletano. Il Cardarelli è uno dei grandi capitoli della storia della città, un luogo che al pari del San Paolo (lo stadio), di Piazza Plebiscito, di Spaccanapoli o del lungomare, fa parte delle scese fisse della gente di Napoli e dove realtà, finzione e magia si fondono (pensate al dottore M. che operò mia nonna). Non a caso Franchini nel suo pezzo scrive:
“Ci sono aneddoti sul Cardarelli, ci sono leggende. «Solo perché noi, al Cardarelli, siamo più elastici», dice il mio amico, calcando ironicamente sul termine elastici. Sembrano barzellette, ma lui dice che sono fatti veri. C’è un dipendente dell’amministrazione che accompagna il solito parente e spiega al medico: «Dottò, io sono un dipendente e questo è mio cugino, che è tossico, ‘o vedite…». Il medico comincia a scrivere sulla cartella clinica: paziente tossicodipendente, ma l’impiegato lo ferma: «Dottò, nun ate capito niente… – e picchiandosi la mano in petto, fiero, e poi indicando con compatimento il parente: ‘O dipendente song’io! ‘O tossico è isso!». Camorrista sparato e ricoverato in sala di rianimazione, dove si accede solo con la mascherina. Il figlio, pretendendo di entrare a volto scoperto, spiega al primario: «Dottò, quello, papà, per la posizione che occupa, se vede a uno mascherato si pensa a un agguato e s’impressiona…»”.
Ed è così forte il Genius loci cardarellesco che il racconto della sofferenza fatto dalla Strout passa dall’immaginazione di una donna americana all’affermazione di una donna meridionale, con la frase finale:
«Sentivo che qualcosa mi tirava all’ingiù in un fiume scuro e che sbattevo rimbalzando sulle rocce. Poi l’acqua si è schiarita e si è trasformata in un oceano. Ogni tanto un pesce stupendo mi nuotava accanto e mi faceva ricordare quant’è bello il mondo».
È un contagio, che prima avviene nei pensieri e poi continua nelle azioni, che meravigliano – in bene – la scrittrice:
«C’erano dottori adorabili e gentili attorno a me, e mi hanno portata in una stanza dove mio marito avrebbe potuto restare. Dalla finestra vedevo le cime di tre alberi. Non ho dormito affatto ma ero pacificata, pur soffrendo ancora nel corpo. Sono stata trattata benissimo da medici e infermieri […]».
E che cosa vede dalla sua finestra? La cima di tre alberi. Come aveva battezzato Franchini l’ospedale?
«Il Cardarelli invece è semplicemente una macchia di pini».
Che poi è quello che ho visto anche io dalla finestra della stanza di A., mentre lui mi raccontava la sua operazione e io con la voce di mia zia, forte delle mie esperienze e delle cartoline di suo figlio, che poi ho mandato da quegli stessi paesi a mio nonno, in una circolarità di stanze d’ospedali, medici, operazioni chirurgiche, finestre, alberi e soprattutto tempo e cartoline. Invano ho cercato quelle che potessero illustrare il prima (usciranno dopo la pubblicazione di questo pezzo), che Franchini descrive così:
«Il Cardarelli una volta era una pineta bellissima, adesso è una pineta sfondata. Sventrata dai viali, dalle costruzioni, dai parcheggi, ma resta sempre una pineta. Fino all’inizio degli anni Settanta il parcheggio era un orto, curato dai malati cronici e dalle suore, e la produzione andava ai malati. Adesso c’è il catering. Fino all’inizio degli anni Settanta non esistevano neppure gli infermieri. Le suore insegnavano agli ammalati cronici a rifare i letti, a fare un’endovena. Il capo dei giardinieri era un malato cronico che si chiamava Pasquale, celebre per essere rattuso e sempre fatto a vino».
La descrizione che la Strout fa degli ospedali newyorchesi differisce non nell’organizzazione ma nel carattere di chi ci lavora, e finisce per disegnare la grande differenza tra il concetto di ospedale nelle due città:
«Negli Usa, almeno a New York, le persone non sono come a Napoli. In un ospedale newyorchese c’è un sacco di gente ovunque, i corridoi sono affollati e gli infermieri sono stressati perché hanno troppo lavoro. Non esiste il senso di accoglienza che ho percepito qui. Da un punto di vista sanitario, l’unica cosa che ho notato a Napoli è che non tutti gli infermieri hanno i guanti quando introducono gli aghi nelle vene. Negli Stati Uniti un’infermiera verrebbe licenziata se non li indossasse. Comunque la mia stanza era pulitissima. E sul piano umano i napoletani vincono di gran lunga sugli americani. A New York l’ospedale significa angoscia; a Napoli rappresenta protezione».
Ora, forse, nessuno più cucinerebbe il brodo, nemmeno per una bambina, su un fornello elettrico, nella stanza di due degenti appena uscite da una operazione chirurgica. Ma perché avveniva? Perché quelle persone consideravano il Cardarelli casa loro, io non potevo ancora perché ero piccolo e fortunato, ma tempo dopo avrei usato quelle stanze per leggere e dormire come uno dei tanti posti dove ho letto e dormito, e in quelle stanze ho visto morire persone a me care, fondanti, e che cosa diventa casa nostra se non i luoghi dove abbiamo visto la morte apparire, manifestarsi, e portarci via quello che amavamo?
Il racconto di Franchini finisce con una chiamata del suo amico medico del Cardarelli, che gli evoca e spiega involontariamente un sogno che lui fa a Milano, ma soprattutto con una immagine vitale, di speranza, c’è un uomo che nonostante il suo lavoro lo porti a stare a stretto contatto col dolore, e nonostante da giovane studente di medicina fosse di una estrema sensibilità, ora è andato oltre, ora conosce la differenza, e tratta l’ospedale come una delle sue case, dove passa le notti, e da dove esce per andare a mare:
“Una mattina mi ha telefonato: «Non puoi immaginare dove sono. Ho fatto due notti di seguito al Cardarelli. Adesso me sto facenn’ ‘o bagno!». «Dove? È il dieci febbraio». «A Torregaveta». «Ma è una chiavica!». «No. È bellissimo. C’è un solo stabilimento aperto. C’è la sdraio e ci sto solamente io, io e i trottatori. I cavalli di Agnano che si allenano sulla spiaggia». Una volta avevo fatto un sogno curioso. Nessuno lo sa, ma a Milano c’è il mare. È un mare talmente inutile e grigio che non ci va nessuno. Sta dietro una serie di villette a schiera, è un’acqua tenue, sulla spiaggia arrivano onde esauste e al largo si vedono ciminiere, ma è il mare. Il mare del mio amico mi ha fatto venire in mente il mare di quel sogno. Una misera scoperta, ma quel mare segreto mi aveva dato un batticuore lento, se può esistere, un’ansia leggera, una cauta felicità”.
Invece la Strout chiude la sua intervista con una frase che mi ha spinto a scrivere questo pezzo, perché sono le parole che avrei potuto dire io, quando entrai per la prima volta al Cardarelli attraversando una foto di Irving Penn:
«La giornata era soleggiata, e mi è venuta in mente Lucy Barton che tornava a casa in taxi col marito pensando che il mondo era troppo soleggiato e chiaro, “spaventosamente chiaro”. E ho pensato: come ho fatto a scrivere nel romanzo una frase così vera?».
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*Ho un amico che fa il chirurgo al Cardarelli. Succede, quando si attraversa in macchina di notte una città sconosciuta, di passare davanti a uno scatolone illuminato come se vegliasse, e di capire subito che è l’ ospedale. Per chi sale dai Colli Aminei e tira dritto il Cardarelli invece è semplicemente una macchia di pini. Per me è sempre stato una macchia di pini, la vedevo e pensavo là c’è il Cardarelli. Il cubo di cemento che ci lasciamo alle spalle passando di notte per le città sconosciute è solo un monito scontato. L’ ospedale della città propria è un’altra cosa. Uno lo vede e si dice: fino a quando il Cardarelli resterà per me soltanto una macchia di pini lontana, che io vedo così, quando la via dei Colli Aminei s’inarca? Io me ne sono andato da questa città, ma ci ho lasciato i miei vecchi e siccome è raro che, invecchiando, si possano evitare malattia e ospedali, nel corso di tutti questi anni di lontananza il Cardarelli è diventato per me un posto familiare più di tanti altri, più ameni, in cui m’intrattenevo da ragazzo. Poi ho un amico che fa il chirurgo al Cardarelli. È un uomo apparentemente sereno e rassicurante, ha una struttura fisica paterna. Ci sono uomini così, che uno a prima vista li direbbe paterni. È grande e abbronzato, perché è uno di quei napoletani che amano il mare e il sole fuori stagione e si tuffano in acqua a gennaio, ma io credo che sia un uomo inquieto e che soffra, anche se non me l’ha mai detto. Nemmeno io, del resto, gliel’ho mai detto. Il meglio è essere allegri e tormentati, non parlare mai dei dolori propri. Quando va in ferie non va in vacanza, ma a fare il medico nei posti disastrati della terra. All’inizio mi facevo scrupolo di raccomandargli qualche vecchio di casa, dicevo non lo chiamate, non gli date fastidio. È stato lui a farmi capire che era uno scrupolo senza senso. Raccomandarsi a qualcuno è la norma e chi non ha nessuno si raccomanda a Dio. Qui, per le vie e in fondo ai corridoi dei reparti ci sono sempre edicole votive con i santi, le madonne e le anime purganti. Attorno a questi altari si addossano, come una folla che preme, nugoli di fiori e in mezzo ai fiori si vedono foglietti infilati come capita, ai piedi delle statue, attaccati con lo scotch alle vesti, ripiegati a biglietto, lasciati cadere stesi, attorcigliati a cuoppo. «Madonna tù sei la mamma di tutti aita il mio papà Ciro a vivere anco poi ti prego». Ci sono aneddoti sul Cardarelli, ci sono leggende. «Solo perché noi, al Cardarelli, siamo più elastici», dice il mio amico, calcando ironicamente sul termine elastici. Sembrano barzellette, ma lui dice che sono fatti veri. C’è un dipendente dell’amministrazione che accompagna il solito parente e spiega al medico: «Dottò, io sono un dipendente e questo è mio cugino, che è tossico, ‘o vedite…». Il medico comincia a scrivere sulla cartella clinica: paziente tossicodipendente, ma l’impiegato lo ferma: «Dottò, nun ate capito niente… – e picchiandosi la mano in petto, fiero, e poi indicando con compatimento il parente: ‘O dipendente song’io! ‘O tossico è isso!». Camorrista sparato e ricoverato in sala di rianimazione, dove si accede solo con la mascherina. Il figlio, pretendendo di entrare a volto scoperto, spiega al primario: «Dottò, quello, papà, per la posizione che occupa, se vede a uno mascherato si pensa a un agguato e s’impressiona…». Queste storie a Milano hanno successo. Me le ricordo per svagarmi, quando mi capita di girare per questi viali, preoccupato per qualcuno dei miei, sotto questi pini che per anni ho avuto il bene di vedere solo da lontano. Il Cardarelli una volta era una pineta bellissima, adesso è una pineta sfondata. Sventrata dai viali, dalle costruzioni, dai parcheggi, ma resta sempre una pineta. Fino all’inizio degli anni Settanta il parcheggio era un orto, curato dai malati cronici e dalle suore, e la produzione andava ai malati. Adesso c’è il catering. Fino all’inizio degli anni Settanta non esistevano neppure gli infermieri. Le suore insegnavano agli ammalati cronici a rifare i letti, a fare un’endovena. Il capo dei giardinieri era un malato cronico che si chiamava Pasquale, celebre per essere rattuso e sempre fatto a vino. «Caro Gesù fa che il nostro Mariano torni a sorridere e possa di nuovo correre con noi aiutaci». Adesso chi si aggira per questi viali, malati e parenti di ammalati e cingalesi, indiani, slavi che sono qui a vegliare ammalati per conto dei parenti, non ci pensa di stare sotto una pineta. Non ci penso io, distolto da certi cartelli che probabilmente da altre parti non sarebbero concepibili, come «vietata la sosta e il bivacco» o «vietato l’uso di sedie a sdraio». Sui sotterranei del Cardarelli ne ho sentite tante, un’epopea gotica. Uno degli accessi è dal bar. Nelle vetrine, uno schieramento brunito di fette di casatiello e panini con wurstel e sottaceti e altre imbottiture che schianterebbero i fegati dei sani. I sotterranei non sono un dedalo tenebroso, ma ci si può incontrare un camion che fa manovra o una processione di: barella con paziente, infermiere che spinge tenendo un involto sotto il braccio e seguito di parenti appresso, un gruppo che sembra un’incisione di Goya. «Devi andare al pronto soccorso del Cardarelli… Vai al pronto soccorso, guarda la gente, poi scrivi», mi consiglia un altro amico. Ma il mio amico medico fa il chirurgo proprio al pronto soccorso. «Tu ti ricordi Luciano, una volta m’è venuto a trovare al pronto soccorso. È venuto mentre stavano portando un operaio caduto da un’impalcatura. L’ha visto ed è svenuto, io poi non sapevo se dovevo dare retta al ferito o a lui. Lassa sta…». «Portami alla morgue allora, fammi vedere la morgue». «Vuoi vedere la morgue del Cardarelli? Sei proprio sicuro?» «Perché?», domando, ma mi accorgo che la voce ha un cedimento. «Non sei abituato. Non è una bella cosa la morgue del Cardarelli. ‘E muort’ stanno là… accussì…» e mi sembra che anche la voce sua esiti, e questo non mi sembra possibile per un medico, e mi allarma. Così ci fermiamo davanti alla morgue e ci spartiamo per il sì e per il no come due adolescenti che esitano a entrare in un luogo proibito. Da fuori sembra un tempietto e c’è un gruppo di persone ferme. Un giovane è seduto su una panchina con la faccia tra le mani. «Avanti entriamo. Se uno vuole scrivere, deve vedere». L’ho detta, la frase. L’ho detta e mi fa schifo. «Iammuncenne», mi tira come un bambino, ma col tono di voce accomodante che si usa con un bambino da proteggere, non da rimproverare, il che è ancora più umiliante. «Mi inviti a venire a Calcutta con te e non mi fai vedere la morgue del Cardarelli?». «Appunto, qua è diverso. Iamm’…», ripete con un sorriso inerme e mi rassegno dicendomi che non lo faccio per viltà, ma per rispetto al dolore di quel giovane con le mani in faccia. Del resto, anche i biglietti dei parenti li ho trascritti come un ladro, mettendomi a una certa distanza, dopo averli aperti per vederli meglio e fingendo di segnare dell’altro, qualcosa di mio su un’agenda, e sentendomi sulla nuca sguardi di riprovazione. «Caro Padre Pio e voi tutti che ci guardate dall’alto proteggete mio marito fatelo guarire e tornare a casa da tutta la sua famiglia che lo adora ma principalmente da me e da sua figlia perché lo amiamo più di ogni cosa al mondo». Un paio di sere dopo, a una festa di compleanno, ci siamo rivisti su una terrazza a Posillipo e c’era anche un suo amico di giovinezza. Avevano studiato medicina assieme, ma quest’uomo non finì e adesso fa tutt’altro, è un regista teatrale. Ha l’aspetto dell’artista, con i capelli lunghi e gli occhi azzurri e persi. Non sembrerebbe un ex studente di medicina. E dice: «Ti ricordi quand’eravamo giovani? Pensare che quello che aveva dentro il fuoco della medicina ero io. Quello impassibile, quello che non s’impressionava di niente ero io. Ti ricordi quando a quell’operazione tu sei svenuto? Un’ernia del disco. Il professore aveva inciso col bisturi, e fin lì… poi aveva cominciato a scollare il muscolo dall’osso e prese l’osteotomo, che è una specie di raspa e fa un rumore… come del gesso sulla lavagna… e tu sei svenuto, e il professore ha urlato lasciatelo lì, nessuno lo tocchi! Non farà mai il medico! E adesso…». Una mattina mi ha telefonato: «Non puoi immaginare dove sono. Ho fatto due notti di seguito al Cardarelli. Adesso me sto facenn’ ‘o bagno!». «Dove? È il dieci febbraio». «A Torregaveta». «Ma è una chiavica!». «No. È bellissimo. C’è un solo stabilimento aperto. C’è la sdraio e ci sto solamente io, io e i trottatori. I cavalli di Agnano che si allenano sulla spiaggia». Una volta avevo fatto un sogno curioso. Nessuno lo sa, ma a Milano c’è il mare. È un mare talmente inutile e grigio che non ci va nessuno. Sta dietro una serie di villette a schiera, è un’acqua tenue, sulla spiaggia arrivano onde esauste e al largo si vedono ciminiere, ma è il mare. Il mare del mio amico mi ha fatto venire in mente il mare di quel sogno. Una misera scoperta, ma quel mare segreto mi aveva dato un batticuore lento, se può esistere, un’ansia leggera, una cauta felicità.
[Questo è il racconto di Antonio Franchini, uscito su “Il Mattino” del 16 marzo 2003]
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[grazie a Francesco De Core, Mauro Erro e Alfonso Pisaniello al quale è dedicato questo pezzo]
(tratto da mexicanjournalist.wordpress.com)