La storia Gabbiadini/Milik e l’auspicio del Mondiale 1999 di Formula Uno: l’incidente di Michael e l’incredibile cavalcata dell’irlandese. Con un finale amaro.
C’era una volta un campione, un fuoriclasse del suo ruolo. Era l’alfiere della sua squadra e insieme a lei stava lottando per grandi traguardi, per riportarla a quei successi che mancavano da tanto, troppo tempo. Veniva da una cultura diversa dalla nostra, ma era spiritualmente più vicino a noi di quanto sembrasse. A guardarlo da lontano poteva apparire glaciale, freddo, distaccato, ma non era così. Ciò era frutto solo di un’impressione superficiale. I suoi tratti nordici se ben analizzati da vicino lasciavano intravedere una serenità interiore che conquistava chi gli stava vicino. Aveva sviluppato una naturale empatia con i componenti della squadra e riusciva a spingerli a dare il massimo, per puntare insieme alla vittoria. Era concreto, lucido, implacabile, eppure umano.
Un brutto giorno, il campione ebbe un infortunio. Si capì subito che si trattava di qualcosa di grave. E, purtroppo, il referto medico confermò le più nefaste previsioni. Avrebbe dovuto operarsi a una gamba e restare a riposo per diversi mesi, durante i quali la squadra avrebbe purtropp o dovuto fare a meno di lui. I tifosi restarono allibiti. Perché pensavano non potesse mai succedere nulla di male a quel gigante buono e perché vedevano, probabilmente, frustrate per l’ennesima volta le ambizioni di vittoria. Senza di lui, credevano che anche per quell’anno non ci fosse più niente da fare, che fosse finita.
Il campione avrebbe dovuto essere sostituito, ma si sarebbe trattato di un rimpiazzo. E i galloni da titolare sarebbero passati al suo gregario. Era questi un bravo ragazzo. Sul volto aveva sempre un’espressione indecifrabile, che a qualcuno sembrava strafottente ma in realtà aveva una vena malinconica. Faceva simpatia, tutti, compagni di squadra e tifosi, gli volevano bene, ma si faceva fatica a credere che potesse reggere una responsabilità del genere. Faceva bene il suo lavoro, si era sempre impegnato dando il suo contributo ma non aveva mai mostrato le stimmate del leader, del vincente di razza. Aveva dei colpi, che però si erano intravisti solo in qualche occasione. E per quanto nessuno dubitasse che ce l’avrebbe messa tutta, provando ad andare anche oltre i propri limiti, sembrava davvero troppo poco per poter competere fino alla fine per il titolo. Tanto più che i rivali di sempre, che già avevano una squadra fortissima, potevano contare su due alfieri esperti, cinici, che andavano a segno quando contava, non sbagliando quasi mai. Ciò nonostante, tutto l’ambiente si strinse intorno al gregario, incoraggiandolo e cercando di metterlo nelle migliori condizioni possibili per esprimere il suo potenziale. Nessuno, razionalmente, gli chiedeva di condurre la squadra alla vittoria. Ci si aggrappava solo a una inconfessabile, folle speranza.
E poi, improvvisamente, accadde. Il gregario prese coscienza della grande occasione e a un tempo della grande responsabilità che aveva e si liberò delle sue insicurezze e delle sue paure. Iniziò a credere in se stesso, mostrando a tutto il mondo che cos’era in grado di fare. E si scoprì in grado di realizzare quelle imprese che sembravano appannaggio solo del campione. Tra i due c’era grande stima, ma pareva che solo senza la sua presenza il gregario avesse trovato la forza di evolversi da crisalide a farfalla. Nel prosieguo della stagione, certo, ci furono anche dei momenti difficili, ma pur sbuffando e arrancando in qualche occasione il gregario non si perse mai d’animo e tenne su la sua squadra a contatto, punto a punto, con i grandi rivali. Che proprio nel momento in cui sembrava tutto più facile iniziarono a perdere qualche colpo, forse perché troppo sicuri di aver già vinto. Anzi, i due alfieri principi della squadra, ingolositi dalla gloria personale, iniziarono addirittura a beccarsi tra loro, incappando in un paio di autogol clamorosi e mettendo seriamente a repentaglio il risultato finale.
Intanto, erano passati i mesi, la stagione si avviava alla conclusione e il campione, con un grande sforzo di volontà, era ritornato in squadra per il rush finale. Con grande umiltà, volle aiutare il gregario a conquistare un successo che tutta la squadra avrebbe meritato per l’impegno profuso. E proprio nel giorno del suo ritorno in campo, i due realizzarono insieme una splendida doppietta che sembrò, finalmente, coronare il sogno di tutti.
Questo racconto è tratto da una storia vera. Gli appassionati di Formula 1 probabilmente la ricorderanno. E’ la storia di come nel 1999 Eddie Irvine, seconda guida della Ferrari, dopo l’incidente in cui il capitano Michael Schumacher si ruppe una gamba lottò strenuamente per riportare a Maranello il titolo piloti che mancava da 20 anni. Agevolato dalle incomprensioni tra Mika Hakkinen e David Coulthard, che sembravano dominatori incontrastati del campionato con le loro McLaren e finirono per sottrarsi punti a vicenda. In quella stagione Irvine vinse quattro Gp, lui che fino ad allora non aveva mai vinto una gara. Il titolo piloti, purtroppo, fu vinto da Hakkinen all’ultima gara, con soli due punti di vantaggio sull’irlandese. Ma la Ferrari non finì la stagione a mani vuote, riuscendo a conquistare il titolo costruttori che mancava dal 1983, cioè da 16 anni.
Chissà se Manolo Gabbiadini si ricorda di Eddie Irvine. Noi speriamo che segua il suo esempio. E magari, ma forse è chiedere troppo, che il finale della storia sia leggermente diverso.